Quando Auschwitz venne scoperta… da Foggia e San Severo

[La prima puntata di questo documento è stata pubblicata ieri. Per leggerla, cliccare qui].

La risposta del Dipartimento di Guerra degli Stati Unti alle autorità israeliane che chiedevano di bombardare la ferrovia di Auschwitz gelò la speranza di quanti pensavano di poter salvare qualche vita umana in una tragedia, che proprio in quelle settimane cominciava a manifestarsi in tutta la sua drammatica evidenza. Il mondo cominciava a capire, ma non fu abbastanza tempestivo.
C’erano volute le prime fughe di coraggiosi prigionieri perché si cominciasse a comprendere cosa stava succedendo, e poi i rapporti dei partigiani polacchi, ma non bastò.
Gli Alleati sottovalutarono la reale portata di quel che stava accadendo nei campi di sterminio nazisti. Preferirono concentrare i loro sforzi su obiettivi sensibili come le fabbriche e le raffinerie, commettendo anche qualche clamoroso errore di valutazione.
Come abbiamo già visto nella prima parte di questo documento, bombardare Auschwitz era diventato tecnicamente possibile da
quando, nell’autunno del 1943, le forze aeree alleate avevano acquisito il pieno controllo delle basi aeroportuali di Foggia.
Il Dipartimento di Guerra giustificò l’impossibilità di bombardare i campi di sterminio con il costo elevato dell’operazione e la sua dubbia riuscita che “non giustificherebbero l’uso delle nostre risorse.”
In realtà, più volte partirono dall’aeroporto Gino Lisa di Foggia e da altre basi facenti parte del suo complesso missioni che andarono molto vicine ad Auschwitz, che in linea d’aria dista da Foggia un migliaio di chilometri. E perfino oltre.
Così tante, da indurre numerosi storici a domandarsi perché gli americani si rifiutarono con tanta ostinazione di bombardare i campi di sterminio.
Nel suo libro The Holocaust Conspiracy: An International Policy of Genocide William R. Perl smonta la tesi, più volte sostenuta da parte delle autorità militari americane, che gli aerei in volo da Foggia non avessero sufficiente autonomia. “Ventidue missioni volarono da Foggia ben oltre Varsavia per portare soccorso ai combattenti della guerriglia polacca.” In questo caso, però, gli aerei non furono statunitensi, bensì inglesi: “ma essi provano – ribadisce Perl – che obiettivi ancora più lontani di Auschwitz potevano essere raggiunti da Foggia, e che durante tutte queste missioni i prigionieri rinchiusi ad Auschwitz potevano sentire gli aeroplani sorvolare le basi e perfino guardarli mentre passavano oltre.”
Eppure – incalza l’autore – la politica americana continuava a ritenere impraticabile il bombardamento delle camere e gas e dei forni crematori.
Le polemiche non si sono mai del tutto sopite. A rinfocolarle improvvisamente, qualche anno fa, fu la pubblicazione ad iniziativa di due analisti della Cia (Dino Brugioni e Robert Poire) di una serie di fotografie di Auschwitz scattate dagli aerei ricognitori Mosquito partiti  il 4 aprile del 1944 dalla base di Foggia, con l’obiettivo di fotografare un’importante industria che sorgeva a Monowitz, a pochi chilometri di Auschwitz e a soli 4 da Birkenau. Il campo di Monowitz è conosciuto anche come  Auschwitz III. Lo stabilimento chimico della I.G. Farben era una delle più grandi fabbriche chimiche del mondo. Produceva plastica ed è logico che facesse gola agli americani, che però sottovalutarono del tutto il contesto.
Il primo volo di ricognizione venne effettuato ad opera dell’aviazione sudafricana il 4 aprile del 1944 che decollò da una base del complesso aeroportuale di Foggia, a San Severo.
Non è il primo e neanche l’ultimo volo. L’intesa serie di attività è stata ricostruita da Michele Gualano in un articolo pubblicato dalla rivista Sud Est, diretta da Franco Mastroluca, (l’articolo è anche leggibile interamente qui.)

Dalle  foto sviluppate – scrive Gualano – , gli analisti militari non riescono immediatamente a individuare con esattezza il campo di concentramento. Tuttavia viene richiesto un supplemento fotografico, sempre affidato al 60° squadrone della SAAF. I Mosquito tornano così nei cieli di Monowitz il 31 maggio. Quel giorno, nel campo, le autorità SS mettono insieme quaranta chili d’oro e metallo bianco ricavato dai denti artificiali tolti agli ebrei uccisi tra il 16 e il 31 maggio. Una terza missione di ricognizione aerea viene effettuata il 26 giugno: da circa diecimila metri sopra Auschwitz, i Mosquito riprendono la fabbrica, i tre campi del complesso e, nei dettagli, i forni, le camere a gas, il raccordo ferroviario.
A luglio anche gli aerei del 5° Gruppo di ricognizione fotografica dell’US Air Army volano da Bari e ripetono la missione. Ad agosto i “Liberator” alleati bombardano l’I.G. Farben. Nell’attiguo campo di Monowitz, in quei mesi c’è anche il futuro Premio Nobel Elie Wiesel, che scriverà in seguito: “Non avevamo più paura della morte, in ogni caso, non di quella morte. Ogni bomba ci ha riempito di gioia e ci ha dato nuova fiducia nella vita”.
Un altro deportato, Stanisław Kłodziński, in un messaggio segreto del 30 agosto 1944 indirizzato a Teresa Lasocka, scrive: “Nel nostro campo il bombardamento non ha avuto conseguenze, ma Buna è un cumulo di macerie, cosicché la produzione di carburo è limitata. Tra i detenuti vi sono stati alcuni morti e feriti. E a settembre, il 13, i bombardieri in azione sono ben 96: dalle 11,17 alle 11,30 sganciano centinaia di bombe sulla fabbrica.
Il 21 dicembre è il giorno dell’ultima missione di ricognizione fotografica del ’44, effettuata tre giorni dopo l’ennesimo bombardamento e l’obiettivo dei fotoricognitori del 60° Squadrone SAAF non è solo quello di verificare i danni alla fabbrica: raccolgono ulteriori immagini dei lager.
Aggiungerà in seguito Barry, riferendosi alla missione del 4 aprile: “In realtà noi non avevamo il minimo sospetto che il campo di prigionia si trovasse proprio lì. Fu solo nel 1979, dopo la pubblicazione del rapporto Holocaust Revisited, che io e i miei colleghi del 60° Squadrone capimmo di avere contribuito, senza saperlo, all’individuazione del campo di Auschwitz”.
Infatti nel ’79, due analisti della CIA, Dino Brugioni e Robert Poirier, recuperano le pellicole fotografiche sviluppate nel 1944 nelle strutture del “Foggia Airfield Complex” (pellicole nel frattempo versate negli archivi di Washington della Defense Intelligence Agency), ristampano le foto e le analizzano con tecnologie che nel ’44 non erano disponibili; pubblicano uno studio che provoca molte polemiche sulla mancata decisione degli alleati di bombardare almeno la ferrovia utilizzata dai tedeschi per portare i prigionieri nel lager. “

All’indomani della pubblicazione dello studio dei due analisti, il Washington Post titolò in modo quanto mai eloquente: “Il mondo sapeva, il mondo tacque.” Lo studio è pubblicato sul sito della CIA (chi volesse scaricarlo lo trova qui).

Il confronto tra le autorità americane e quelle israeliane proseguirà per decenni. A chiuderlo sarà a sorpresa molti anni più tardi George Bush.
L’11 gennaio del 2008, durante una visita al monumento che ricorda l’Olocausto l’allora presidente statunitense si soffermò davanti ad una fotografia del campo di sterminio. “Avremmo dovuto bombardare Auschwitz”, disse non senza commozione, aggiungendo che la decisione di non farlo rappresentò una scelta complessa.
Tom Segev, uno dei maggiori studiosi israeliani dell’Olocausto, osservò che l’affermazione di Bush  sembrava del tutto spontanea e che era la prima che un presidente americano ammetteva l’errore.
“È un raro riconoscimento – ha detto Segev – di una questione che ha suscitato profonde polemiche per decenni. Gli Alleati posedevano dettagliati rapporti su Auschwitz durante la guerra da parte dei partigiani polacchi e dei prigionieri che erano riusciti a scappare. Ma hanno scelto di non bombardare il campo, né le linee ferroviarie che portavano ad esso, o uno qualsiasi degli altri campi di sterminio nazisti, preferendo invece concentrarsi tutte le risorse sullo sforzo militare più ampio.”

 

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Author: Geppe Inserra

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