Decisamente insolite, per far parte di una collana – l’Italia Artistica– che nelle intenzioni doveva rappresentare la prima guida turistica mai pubblicata in Italia, le pagine che Romolo Caggese dedica al Capoluogo, nella sua monografia Foggia e la Capitanata, costituiscono un reportage di notevole valore e, soprattutto, di incredibile attualità. Certo, il forestiero che le legge non ne trae grandi motiviazioni per una visita nella nostra città. La lettura è raccomandata soprattutto ai foggiani, perché certifica che il difficile rapporto della città con il suo passato e la sua identità non è cosa nuova, e data ancora prima dell’evento – i bombardamenti – che solitamente si indica come la causa dell’irrimediabile cesura tra la città e la sua memoria.
Caggese conosceva bene Foggia, per averci vissuto qualche anno in quanto liceale. Si era trasferito per ragioni di studio dalla sua cittadina natale, Ascoli Satriano. Nel testo che pubblichiamo di seguito si legge una vivissima testimonianza, in prima persona e in presa diretta, in quanto fu testimone oculare, della rivolta popolare che nel 1898 provocò l’incendio del Municipio e la distruzione dell’archivio.
L’autore mette questo episodio in relazione ideale con lo scarso sensibilità della cittadinanza verso la memoria e la conservazione del passato. Di Foggia tratteggia con mano ferma ed esperta (Caggese è stato uno dei più illustri studiosi del Medioevo), l’importanza che essa aveva raggiunto in questo periodo storico. E l’incapacità di difendere e valorizzare questo aspetto identitario.
Tutto il patrimonio della civiltà medioevale – scrive – è andato disperso
miseramente, e la ignavia e l’ignoranza e il nessun senso storico dei
vandali passati e presenti hanno cancellato dalle mura, dalle case,
direi quasi dall’aria il colorito che vi aveva impresso il passato.
Memorabili le pagine sui diversi rimaneggiamenti subiti dalla Cattedrale, cui Caggese preferisce, per bellezza ed originalità, la Chiesa delle Croci. Molto vivide sono anche le pagine in cui Caggese parla della Foggia moderna (il libro è stato scritto nel 1910) elencandone i problemi: l’incultura, l’illegalità dilagante, l’invivibilità…
Leggete con attenzione il testo di Romolo Caggese, perché lo merita. Le immagini che lo accompagnano sono disponibili in un album sulla pagina facebook di Lettere Meridiane. La puntata precedente della lettura critica di Foggia e La Capitanata di Romolo Caggese, dedicata a Troia, può essere letta cliccando qui. Qui, invece, la recensione all’opera dello storico originario di Ascoli Satriano. Buona lettura.
Di faccia al Gargano, come altro faro simmetrico all’opposto lembo di Capitanata, il gruppo montagnoso del Vulture, ed a ponente, di faccia al golfo di Manfredonia, la lunga striscia ondulata dei monti di Campobasso, di Benevento, di Avellino, della Basilicata che chiudono alle sorgenti dell’Ofanto l’ampio coro alpino a guardia del Tavoliere assopito. Foggia è nel centro, ignuda odalisca immersa in un bagno di luce, custodita per le grandi ombre dei re rifugiate fra le selve del Gargano, nelle lontane Tremiti, nello viscere stanche del Vulture. L’ampiezza maestosa del paesaggio, la visione dei monti e del mare, la fertilità del suolo sembra che respingano l’anima verso arditi sogni di conquista e debbano ad un tratto fare del Tavoliere il più rigoglioso e superbo giardino d’Italia.
Si racconta che la città fu costruita dagli Arpani scampati, verso il mille, alla distruzione della loro città compiuta dall’Imperatore bizantino e dai Saraceni; e ruderi dimenticati di Arpi si osservano anche oggi a pochi chilometri su la strada di Manfredonia. I Foggiani non revocano affatto in dubbio la loro origine arpana, perchè nell’antica leggendaria storia di Puglia la vecchia Arpi ha un nome glorioso. Fondata da Diomede, fu il centro di tutta la civiltà appula preromana : Licofrone, nel suo poema Cassandra, ne celebra la origine insigne ; Strabone parla dei suoi commerci e dei suoi ricchi prodotti ; Tito Livio la ricorda, spesso e con onore, nell’epico racconto della seconda guerra sannitica, dell’impresa di Pirro e della seconda guerra punica. In tempi più recenti una forte colonia romana temprò con la fierezza del sangue latino la morbidezza del tipo ellenico. I Normanni protessero e ingrandirono la nuova città, costruita, secondo la empirica tradizione glottologica, in una fovea, o luogo basso e paludoso ; e fu proprio Guglielmo il Buono che gettò le prime fondamenta della Cattedrale. Ma quantunque in ottima posizione geografica, per infrenare le continue scorrerie e molestie dei Longobardi di Benevento, Foggia rimase nell’ombra durante tutto il dominio normanno, e di lei si ricorda poco più che il nome nell’età (oscura ancora per la scienza) del Comune pugliese.
È, invece, con Federigo II di Svevia che essa si arricchisce di monumenti e di storia. Il gran principe, che accolse nella tempestosa anima tutta la costanza e la tenacia ferrea del sangue paterno, e la irrequieta mobilità geniale del sangue latino, vi abitò lungamente e l’ebbe cara; dal 1221 in poi, fin quasi al termine di sua vita, egli vi si recava a godere i fecondi brevi ozi della pace, a sognare fra il mare e i monti e le foreste la orgogliosa epopea della sua casa e della sua missione nella storia d’Italia e del mondo. Di là egli vigilava i suoi Saraceni di Lucera, e i suoi fidi di Andria, di Castel del Monte e di Castel Fiorentino ; ivi meditava, fra la caccia e le cavalcate e gli amori, la formula sapiente delle sue leggi animate di modernità, e i suoi piani di guerra contro i Comuni italiani e il Papato ; ivi egli dubitò del dogma cattolico e distrusse ad uno ad uno nel suo spirito ribelle i germi della educazione religiosa che Innocenzo III vi aveva largamente seminato rifacendo a pezzo a pezzo, ostinatamente, l’immenso programma politico del suo grande avo, Barbarossa; e assistè al tramonto dei suoi ideali in una società che non sapeva cosa farsene della sua autorità imperiale e del suo imperialismo ! Nella corte di Foggia morì, nel 1241, sua moglie Isabella d’Inghilterra, e di là partì il mesto corteo che accompagnò alla tomba di Andria, nella cripta del Duomo, la donna amata a dormire accanto all’altra consorte imperiale, Jolanda di Gerusalemme! Ivi suo figlio Manfredi ripensò alle imprese paterne ed alla riconquista della fortuna: là firmava i suoi ultimi diplomi ai ghibellini di Toscana e di là lanciava contro i guelfi e il Papa le ultime forze e l’estrema audacia delle sue genti e della sua giovinezza.
Vinti e spenti gli Hohenstaufen, gli Angioini fecero di Foggia una delle capitali del Regno, si che essa finì col diventare una vera città angioina. Molti diplomi di Carlo I e dei primi .suoi successori sono datati da Foggia ; molti negozii importanti per lo sviluppo economico e politico del Reame furono stipulati a Foggia ; molti monumenti, fra i quali il Duomo, e il castello di caccia in pantano, nei dintorni, furono costruiti o rifatti dagli Angioini. E nel secolo decimoquarto, quando Roberto stabilì definitivamente la sua sede in Napoli, Foggia continuò ad essere oggetto di mille cure, sì che divenne un gran centro commerciale e il necessario punto d’incrocio delle vie di comunicazione di tutta l’Italia meridionale.
Gli Aragonesi la dotarono, infine, di molti ed importanti privilegi, primo fra tutti la celebre istituzione della Dogana di Puglia, che fece affluire alla città del grano immense ricchezze. La storia continua narrando che fu saccheggiata dai Francesi nel 1328; che il suo popolo non fu sordo all’urlo della rivolta napoletana del 1646 contro gli Spagnoli; che nella sua Cattedrale, il 29 giugno 1797, si celebrarono le nozze di Francesco I di Borbone con Maria Clementina d’Austria; che fu orribilmente saccheggiata dalle bande del Cardinal Ruffo, nel 1799, e che, finalmente, Gioacchino Murat la fece capitale delle provincie di Capitanata e Molise.
Ma di tutte queste gloriose memorie oggi non resta che qualche scarso segno, destinato anch’esso a perire fra breve. Tutto il patrimonio della civiltà medioevale è andato disperso miseramente, e la ignavia e l’ignoranza e il nessun senso storico dei vandali passati e presenti hanno cancellato dalle mura, dalle case, direi quasi dall’aria il colorito che vi aveva impresso il passato. Del grande palazzo di Federigo II che avrebbe dovuto essere conservato con religioso amore non resta — pur troppo — che un povero avanzo, un piccolo arco di stile romano, malamente incastrato nella indecente facciata di una casupola privata. Tre brevi iscrizioni, che per fortuna non sono state ancora imbiancate, ricordano… al popolo, che tutto ignora, che Federigo volle fare di Foggia « la inclita sede imperiale » ! Della Corte Angioina, splendida e grande anch’essa, a giudicare soltanto dall’ area che occupava, non ci avanza che il frontone di una delle porte e poche pietre murate nelle pareti esterne di alcune brutte case moderne che occupano l’antico cortile del palazzo, e la facciata!
Il Duomo, che pur conserva ancora all’esterno il ricordo di elementi orientali, come una testa ricavata da un vaso greco e due leoni con l’albero sacro dei Persiani ecc., e che nel cornicione esterno e in qualche capitello serba ancora intatta l’impronta del suo secolo, è stato invece più volte barbaramente restaurato, imbiancato, pitturato. Nell’interno, di medioevale non c’è che la poca luce, ed i capitelli delle colonne, che riprendono lo stile del cornicione esterno, ma gli altari, e il pergamo, e i cancelli che li circondano, e i finestroni, e le nicchie, e i crocefissi, e le pitture, tutto è di stile barocco, non solo, ma mentre siamo ben lontani dalla semplicità venusta del tempio gotico, siamo anche forse più lontani dalla grandiosa ricchezza delle cattedrali barocche romane. Dalle panche ai confessionali gli arredi non costano che poche lire!…. .Sul rosone sovrastante la porta principale, poi, quasi come se vi fosse stato proprio un bisogno assoluto di guastarlo, in tempi recenti hanno impiastricciato un ornamento in ferro intorno ad una M anche in ferro, che sembra fatto apposta per appendervi i vecchi, tradizionali bicchierini con olio e lucignolo, di che i nostri padri ornavano e illuminavano i templi e le strade della città quando ricorreva la festa del protettore. Rovinato quasi completamente nel se- colo XVIII, il tempio fu ricostruito come meglio si potè in una età di profonda decadenza. Ma, esso fu, come è noto, iniziato ai tempi della monarchia normanna, il 1179, e condotto a termine con grandi cure nei primi anni del duecento per opera di Federigo II, che vi impegnò tutta una legione di abilissimi artefici educati al culto delle pure forme artistiche della gloriosa Cattedrale di Troia, il prototipo più insigne di tutta una serie di monumenti a cupola dell’Italia del Sud. Il cornicione anteriore e laterale ricorda, nel suo sviluppo di fogliami, di mostri e di umane sembianze, le stesse forme che trionfano nel Duomo di Troia, nel S. Nicola di Bari, nel Duomo di Termoli ; e il ricordo si perpetua nei quattro capitelli che infiorano le colonne su le quali riposa la volta della cripta, giù al disotto del livello stradale, nell’ombra misteriosa e umida, dove sembrano crucciati i fantasmi dei vecchi re.
Più nulla! Qualche buon quadro adorna le pareti del tempio, come un S.Pietro di autore ignoto — un volto luminoso di carità divina e di umiltà profonda — ma il tempo corrode lentamente ma decisamente anche queste estreme reliquie. Il vecchio campanile, per esempio, è quasi del tutto scomparso ed in sua vece si leva oggi una torre quadrangolare a tre piani, dissimili per altezza e per stile, contaminato dalla solita lancetta dell’orologio a sole.
Né le altre chiese di Foggia sono più artistiche. Una sola, quella delle Croci o del Monte Calvario, attira subito, per la sua singolare struttura, lo sguardo dell’osservatore ; cinque cappellette, a guisa di tombe, precedono in fila, tra l’erba del prato, la chiesa umile e povera (ma decorata di un soffitto non spregevole), quasi che lo spirito del peccatore possa purgarsi delle sue colpe prima di entrare nel tempio del Signore.
Il castello angioino e aragonese, posto fuori porta Manfredonia, su la via che mena al cimitero, non certo molto pregevole per grandi particolarità artistiche, è pur tuttavia con incuria veramente straordinaria adibito, se non erro, un po’ a magazzino di legnami, un po’ a botteghe di legnaioli, un po’ a case di abitazione. E, tanto perchè la rovina del passato fosse intera e i commercianti foggiani non avessero più a trovarsi fra i piedi o fra le mani una pietra o un documento archivistico medievale, ecco che nella rivolta popolare del 28 aprile 1898 fu quasi totalmente dato alle fiamme il palazzo comunale — proprio accanto alla corte fridericiana! — con tutto l’archivio annesso!
Io fui presente a quella scena selvaggia che rimarrà nel mio spirito per più ragioni memorabile. Ero studente del primo corso di liceo, e non avevo mai capito abbastanza dai libri storici, letti e riletti con passione ardente, a che cosa mai potesse giungere l’ira della folla torturata da secoli di mal governo di soprusi, ebra di tutte le rivendicazioni sognate nel lungo sonno della .servitù. Alle 10 di mattina del 28 aprile, quando i soldati del 57° reggimento di fanteria erano tutti alla passeggiata su la via di Manfredonia, e nessuno prevedeva quel che sarebbe accaduto, oltre un migliaio di donne sudicie e scalze e quasi altrettanti uomini seminudi e cenciosi come minatori esciti proprio allora dalle viscere della terra, si precipitarono per le vie e per le piazze principali della città, urlando come forsennati, rompendo tutti i fanali del gas e le lampade elettriche, i vetri dei balconi delle case signorili, gli specchi dei parrucchieri e le insegne delle botteghe.
Poi la fiumana s’ingrossò per via; gente che io non avevo mai visto per le strade di Foggia sbucò da non so quali segreti ripostigli della miseria e della disperazione, e si fermò dinanzi al Municipio e all’ufficio centrale del Dazio Consumo, come dinanzi al più feroce nemico lungamente atteso su la via per sgozzarlo. Fu un attimo : alcuni legarono, ferirono, malmenarono gli impiegati del Dazio ; altri portarono via quanto vi era là dentro di sequestrato ; altri, piantate delle cassette di petrolio come mine sotto l’arco del palazzo municipale, dettero fuoco all’edificio. Il Sindaco, i Segretari, gl’impiegati si salvarono a stento, sfuggendo al furore popolare ; ma la casa del… Popolo crollò e l’archivio fu distrutto. Ma chi ne pianse la perdita immane ?
Ahimè! Qualche riga in qualche clandestino giornale cittadino, come se si fosse trattato di un piccolo fatto di cronaca, bastò a sfogare l’acerbo dolore degli uomini ilei secolo decimonono, del secolo storico! II professore di storia non ne accennò né pure in classe, in omaggio ai regolamenti scolastici che vietavano e vietano di fare agli alunni dei discorsetti, di argomento o di ispirazione o di occasione, politici o che potrebbero essere interpretati come tali dai tribunali di guerra ! Così le fiamme, che son solite purificare, divorarono — inarrestate! — nel bel meriggio primaverile i frammenti di tutta una civiltà gloriosa; ma servirono anche ad arroventare un suggello che vorrei dire d’infamia per la città tutta quanta, se non pensassi che la miseria e il dolore sospingono gli uomini in una sfera d’azione fuori del diritti e della morale: là dove non può raggiungerli né lo sdegno degli eruditi né il tardo rimprovero dei posteri.
Ora Foggia ha belle strade ampie e ben lastricate, sempre affollate da una quantità di gente d’affari di tutta la provincia, case generalmente decenti e qualcuna, modernissima, veramente elegante e signorile; una splendida «Villa Comunale », fra i più bei giardini pubblici dell’Italia meridionale; due ottimi edifici scolastici per l’Istituto Tecnico « Pietro Giannone » e per il Liceo « Lanza »; un grandioso palazzo della Banca d’Italia e una sontuosa residenza prefettizia, circoli di lettura e un Teatro messi su con buon gusto. È sopra tutto una città ricca, quasi come Cerignola, se non forse di più, dove si spendono non meno di trentamila lire all’anno per la festa dell’Assunta, e dove per sola sovvenzione al buon andamento del Teatro il Municipio dà quasi ogni anno diecimila lire.
Un detto popolare assai diffuso in provincia sentenzia solennemente: « chi Foggia non vede Napoli non crede », ma è certo però che la fantasia dei poveri montanari del Gargano vede nelle bellezze della città ciò che non v’è. La stazione ferroviaria, una delle più importanti e più comode stazioni d’Italia, con la sua fitta rete di strade ferrate che d’ogni parte della Penisola vi convergono, sempre affollata di viaggiatori di tutte le nazionalità, assordata dallo strepito di centinaia di locomotive; gli urli incessanti dei venditori ambulanti e i caffè gremiti sempre fino a tarda ora della notte di gente d’ogni colore; le due bande musicali, delle quali una veramente insigne, che rallegrano quasi tutti i giorni la gioconda passeggiata della villa fiorita di garofani, di gerani!, ma non eccessivamente di belle donne, e, infine, un numero a dirittura enorme di cocottes che assiepano i marciapiedi del Corso fino a notte inoltrata e danno a tutta la città, anche all’aspetto esteriore, un’aria di gaudente lasciva, tutto questo può in qualche modo dare « l’idea lontana » — secondo la frase felice del dialetto — di una grande città.
Ma, pur contando circa cinquantaseimila abitanti. Foggia è molto lontana ancora da poter dare una qualsiasi giustificazione al detto popolare. Già, dall’acqua potabile orribile e puzzolente ai cibi generalmente poco sani, mancano le più urgenti e indispensabili comodità di vita. Le vie secondarie, poi, sono qualche cosa che un settentrionale può appena imaginare : strette e sudicie in modo da dovercisi armare di stivaloni per non correre dal sarto a rinnovare il vestito, specie d’inverno, fiancheggiate da case bassissime, quasi tutte di malaffare, alcune sotto il livello della strada, altre accoccolate in cima a delle scale dirupate come dopo un assedio di cento battaglioni d’artiglieria, con finestre sgangherate e balconi cadenti da far paura ai passanti. La plebe vi si accumula oscenamente, bestialmente ; e, d’estate, quando dai 37 ai 40 gradi di caldo soffocano financo i cavalli delle vetture e i cani girovaghi, e l’aria è impregnata da non so quali crassi vapori, la povera gente cuoce il suo pasto su l’uscio di casa su fornelli improvvisati, e poi si sdraia fra i resti del fuoco e la polvere della via, le mosche, le zanzare e i gatti, fino alle quattro o le cinque del pomeriggio. Unico segno di vita, prima d’allora, qualche calzolaio lavora a la bancarozz, e fischia una canzonetta, o fuma tranquillamente la sua pipa, lanciando di tanto in tanto il martello contro un gatto che gli scivola tra i piedi o gli addenta le suole… che sono al bagno in una tinozza d’acqua putrida e verdastra. Come a Cerignola, una parte della popolazione, turbolenta sanguinaria analfabeta, affiliata alla mala vita, parlante un dialettaccio inqualificabile (come, del resto, è orribile il dialetto di tutta la città), è distinta col nome di crocesi, dovuto al fatto che abita per lo più in prossimità della chiesa delle Croci e del Piano delle Fosse, all’ombra del monumento a Ferdinando d’Aragona (vedete combinazione!) detto il pataffio. Questo delle fosse è un immenso piano, quasi una piazza, fuori porta Manfredonia, tutto scavato al di sotto in spaziose fosse dalle pareti in cemento e mattoni che servono per conservare il grano lungamente, e chiuse e in un pesante macigno sormontato da una piccola piramide o da un cilindro litico; sì che tutto il piano sembra quasi una strana necropoli di gente primitiva più che un enorme e strano magazzino di vettovaglie. È questo un sistema assai comodo per conservare il frumento, ed i documenti svevi ed angioini ci dicono chiaramente che era in vigore fin dal dugento, specialmente nelle masserie della Corona e dei grandi signori feudali. Ogni anno, il 25 di maggio, in quel piano si celebra la « fiera» famosa fin dalla dominazione spagnuola. Vi si comprano e vendono migliaia di cavalli, buoi, pecore, capre accampati all’aperto con i guardiani e i pastori armati di tutte le armi, e i padroni, con la destra appoggiata solennemente alla tradizionale paroccola (nodoso e lungo bastone terminato con un rigonfiamento talvolta grande come la testa di un neonato), contrattano, discutono, bestemmiano e pranzano allegramente con agnelli interi e boccali di vino tauraso. E come in tutto il resto delle Puglie, la percentuale dell’analfabetismo è altissima e la delinquenza proporzionata ai lunghi secoli di mal governo: la plebe è ineducata, qualche volta triviale, quasi sempre maestra di finzioni e d’inganni; e le stesse classi privilegiate, dalle quali escirono pure uomini di buona fama — Giuseppe Rosati, fisico, Francesco Ricciardi, Ministro di Giustizia a tempo del Murat, Vincenzo Lanza, patologo insigne nelle Università di Napoli e Torino, Nicola Parisi e Saverio Altamura, buoni pittori, ecc. — addormentate fra le agiatezze o intente ad accumulare tesori, hanno smarrito ogni senso di vita intellettuale e quindi ogni sentimento del bello e dell’arte.
Quando lasciate Foggia, vi pare di esservi liberati da un peso soffocante. Andati fin laggiù per osservare e meditare, non ne avete avuto quasi il tempo e il modo: l’aria pesante vi ha fatto smarrire la facoltà del pensiero, e mentre i ricordi tentavano di affacciarsi su la soglia della coscienza come soavi fiori su gli spalti di un vecchio castello, il soffio impuro della modernità li ha fatti cadere ad uno ad uno.
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