Caggese racconta le masserie e l’Incoronata

Il nostos di Romolo Caggese nella sua Capitanata, per scrivere il libro Foggia e la Capitanata pubblicato nella collana di monografie illustrate Italia Artistica, diretta da Corrado Ricci, comincia dal capoluogo, da dove il grande storico parte alla volta della sua cittadina d’origine, Ascoli Satriano.
L’incipit del volume è dedicato alle condizioni del Tavoliere della Puglia, e sono pagine di straordinario spessore letterario. Le immagini della pianura desolata e sitibonda sono alternate a quelle, altrettanto vivide, della Madonna dell’Incoronata e dei pellegrinaggi. Caggese scrive all’inizio del secolo scorso, quando nelle campagne attorno a Foggia sono in atto grandi trasformazioni, con l’avvento dell’agricoltura rispetto alla pastorizia.
Sono pagine memorabili davvero, che Caggese cesella descrivendo le pesanti trasformazioni subite dal paesaggio, additando il Tavoliere come “ povera landa, che incoscienza di uomini e fatalità di clima hanno in mille modi devastata, sfruttata, impoverita.”
“Un tempo non lontano, quando i sùbiti moti del ‘’60 non avevano ancora violentemente interrotto lo svolgimento delle forme economiche pugliesi e non avevano aperta ancora la strada del Mezzogiorno d’Italia agli speculatori del Nord, armati di cupidigia e di moneta sonante – è la tesi di Caggese – , questi campi dei quali oggi uomini ed animali sparuti ricercano le viscere isterilite e l’arsura o la grandine distruggono— ogni potenzialità produttrice, erano ammantati di selve profonde, quasi tutti d’erba e di roveti, e mandre immense vi scendevano dalla montagna d’Abruzzo e di Basilicata alle prime nebbie di novembre.”
La successiva descrizione del pellegrinaggio all’Incoronata offre un ulteriore, toccante spaccato di condizioni di vita ai limiti dell’impraticabilità.
Sono pagine straordinarie, da leggere con attenzione e su cui riflettere, accompagnate da immagini molto suggestive del bosco dell’Incoronata e del Santuario, com’erano una volta. Potete guardarle nella galleria pubblicata sulla pagina fan di Lettere Meridiane.
Queste sono, invece, le precedenti Lettere Meridiane dedicate al libro di Romolo Caggese:

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Il 13 agosto 1905, alle 13.30 partii da Foggia per Ascoli Satriano, mia patria, proveniente da Firenze, dopo diciotto ore di treno. Da Foggia la strada ferrata si slancia quasi diritta a traverso una pianura trista e deserta, sotto la sferza del sole, immensa e bianchiccia per la stoppia lasciatavi dai mietitori della montagna. Il Cervaro ed il Carapelle, che corrono quasi parallelamente da ponente a levante, dal contrafforte degli Appennini al golfo di Manfredonia, non sono più che due poveri rigagnoli perduti in fondo all’ampio letto, quasi due povere vene essiccate di un organismo già florido e possente. Qualche albero, solitario, povero basso magro, come un viandante sperduto nel deserto, sembra aspettare l’ora della morte, triste e solenne nella sua rassegnazione disperata.

Lungo la siepe della ferrovia, all’ombra breve e polverosa, pochi gruppi di aratori dormono profondamente sì che lo strepito del treno non li scuote. Sono laceri, neri come minatori, con la pelle screpolata come la terra che essi fecondano, come roccia sul dorso della montagna: scarpacce sformate e pesanti come di ferro, cappelli di paglia o di feltro sfaldati e sfondati, e una povera annosa pipa di canna e di creta cotta dormente fra le labbra, semiaperte ed immote come lembi di ferita selvaggia. Fulminati dal sole pugliese, indeboliti da lunghi anni di denutrizione spaventosa, ubbriacati dal fumo acre della pipa, oppressi dalla stanchezza, dalla polvere, dal sudore rappreso su la carne come le stille di fango su i muri screpolati delle loro case, sono là caduti quasi in deliquio, senza moto di muscoli e di nervi, senza sogni, senza speranze, come ergastolani perseguitati e storditi dal rimorso implacabile, istupiditi e annientati dalla loro sciagura senza nome. Quando fra poco si desteranno, aggiogheranno un’altra volta al pesante aratro i muli stanchi, e ricomincieranno a tracciare i solchi con la mano abile di geometra, fino a che il sole non sarà caduto dietro gli Appennini che limitano, azzurra fascia, tutto l’orizzonte.
Qua e là, a distanza di chilometri, pochi mucchi di case campestri solitarie come piccole carovane cadute per il caldo e la fame su la via dell’ emigrazione, soffocate da enormi ammassi di paglia terminanti a cupola, come le antiche tombe della gente che abitò un giorno queste contrade. Sono le masserie. Nel giugno, quando fervono i lavori del raccolto e la macchina trebbiatrice accorda il suo possente strepito come il ritmo vario e gentile dei canti popolari; e nell’ottobre, quando ancora una volta alla terra stanca e al cielo perverso della regione il colono affida generosamente tesori di ricchezze e di speranze, un fremito intenso di vita turba la solennità quasi funebre di questa povera landa, che incoscienza di uomini e fatalità di clima hanno in mille modi devastata, sfruttata, impoverita.
Un tempo non lontano, quando i sùbiti moti del ‘’60 non avevano ancora violentemente interrotto lo svolgimento delle forme economiche pugliesi e non avevano aperta ancora la strada del Mezzogiorno d’Italia agli speculatori del Nord, armati di cupidigia e di moneta sonante, questi campi dei quali oggi uomini ed animali sparuti ricercano le viscere isterilite e l’arsura o la grandine distruggono— ogni potenzialità produttrice, erano ammantati di selve profonde, quasi tutti d’erba e di roveti, e mandre immense vi scendevano dalla montagna d’Abruzzo e di Basilicata alle prime nebbie di novembre. Ora non più: la follia collettiva della dissodazione ha spogliato tutto quanto il Tavoliere e l’ industria armentizia è scomparsa. Solo agli estremi lembi della pianura, là dove il terreno sale leggermente verso le colline di Ascoli, di Candela, di S. Agata, qualche posta di un centinaio di pecore sta a testimoniare, miserabile avanzo di tempi migliori, dell’antica ricchezza pugliese. E a sette miglia da Foggia, verso Ortanova e Cerignola, laggiù, su la riva destra del Cervaro. qualche chilometro quadrato di bosco sembra aspettare che la mano ansiosa dell’uomo profani il luogo sacro alla Natura ed alla Madonna, abbattendo la quercia secolare e il pioppo gigantesco, contaminando con l’aratro e la semente la terra vergine e forte.
Ora, a pochi passi da quel bosco, la pietà dei fedeli ha eretto il « santuario della Incoronata « alla Vergine apparsa un giorno, secondo la leggenda, a della povera gente, affacciandosi, divina imagine, di fra i rami di una quercia, pura e bella come raggio di sole. Come vuole la leggenda, la Madonna dell’Incoronata ha il viso bruno, molto bruno, e tutt’altro che di linee perfette. La piccola statua, senza espressione e senza vita, tozza, quasi appena sbozzata, rappresenta la Vergine seduta tra i rami della sacra quercia, col bambino in braccio, incoronata d’argento, ammantata d’oro, in una nicchia tutta cosparsa di anelli, di collane, di orologi, anche di orologi, di pietre preziose, di mille piccoli oggetti votivi. Ai piedi della nicchia sovra un altare di marmo barocco irregolare, ardono nel mese di maggio migliaia di ceri e di lampade d’argento, tra fasci di fiori campestri e di rose legati con nastri di seta azzurra e verde. Giù per le due scalinate laterali alla balaustrata dell’altare maggiore — poiché il tempio è a due piani — ardono perennemente altre lampade dinanzi ad una farragine di quadretti di voto, rappresentanti orribilmente certe scene miracolose che la suggestione religiosa delle povere plebi del Mezzogiorno crede avvenute in numero straordinario. Ogni giorno, dagli ultimi di aprile ai primi di giugno, i pellegrinaggi si susseguono senza posa. Sono turbe immense, che scendono dalle montagne abruzzesi, dal beneventano, dai paesi montagnosi della stessa Capitanata ; gente variopinta, dai costumi più strani, che si trascina dietro quasi tutta la casa. Gli uomini, con i pantaloni corti allacciati alle ginocchia, la giacca di velluto con bottoni di metallo bianco, precedono la compagnia, camminando con ordine a passo lento eguale instancabile come il passo dei loro forti muletti, intonando le litanie e il rosario dietro il più vecchio che regge in alto una gran croce di legno come vessillo. Le donne, dalla sottana stranamente rigonfia e pieghettata alla cintola, nera o rossa, ruvida e pesante, scalze o malamente calzate di sandali, seguono come un branco di pecore le orme dei loro uomini, con in testa certi enormi fardelli che sembrano edifici o piccole culle di vimini per i loro bambini.
Quasi ogni famiglia ha con sé un asino o un mulo perduto sotto enormi carichi di cenci, di vino, di cipolle. Camminano per intere giornate, sospinti dalla fede e dal desiderio di prostrarsi ai piedi della Vergine; e quando, stanchi e sfiniti, giungono al Santuario a traverso vie un dì battute dalle greggi, fanno per tre volte il giro del tempio all’esterno, come per purificarsi, cantando salmi di penitenza e nenie funebri. Poi si dispongono ad entrare. Si fa subito, come ad un segno dato, un silenzio solenne, come se si aspettasse di udire dall’alto dei cieli la parola di un dio, ma i volti impallidiscono, gli occhi s’intorbidano, tremano tutte le fibre. Appena le prime file varcano la soglia del tempio, un urlo immane come di tempesta improvvisamente suscitata sul mare, si leva da mille petti e le braccia si agitano convulsamente nell’aria come per afferrare qualche cosa della divinità di Maria diffusa per tutta la sua casa. È un saluto fatto di fede, di superstizione, di disperazione ; e quanto la loro anima buia e generosa ha sognato, desiderato, perduto, pianto, sepolto, lassù su la montagna lontana fra le nevi ed i boschi, nell’abbrutimento della fatica e della fame, si raccoglie in quel terribile urlo lacerante. Poi s’ inginocchiano tutti, e si trascinano così, penosamente, all’altare della Vergine, impassibile lassù fra i ceri e lo scintillìo dell’oro.
Qualcuno, sorretto dalla semplice pietà di due compagni, si fa il segno della croce, bacia la terra con labbra avide come di amante, e striscia verso l’altare con la lingua scopeggiante sul pavimento di mattoni, orribile di sudore e di sudicio. Con la bava sanguigna che gli affoga la bocca, perdendo sangue e brandelli di mucosa…. E a mezza via è svenuto ! Ma gli altri vanno avanti, premendo le orme di quel sangue, piangendo, urlando, cantando. Poi tacciono tutti. Perché ? Ecco : una povera donna pallida e discinta, con gli occhi vitrei, immoti, senza sguardo, si avanza tra la folla che sa e attende; si avanza all’altare, tenendo in braccio un povero essere umano semispento, di età indefinibile. Due comari l’accompagnano. E quando è su i gradini dell’altare, come se fosse là a recitare una parte di tragedia imparata per l’occasione, con altissime grida domanda alla Madonna la grazia pel suo figliolo, chiamandola con i nomi più dolci di madre e di consigliera, di benefattrice; ma se un impeto di fede cieca assale il suo povero cuore sanguinante e la parola dolce della preghiera più non è adatta a significare l’imperiosa volontà di essere esaudita, oh ! allora con sublime slancio di tutta l’anima materna, abbassando la Vergine fino a lei, elevando sé stessa fino al trono dell’Altissima, con voce che non trema chiama l’ Incoronata con nomi possenti quasi d’ ingiuria, alza la mano come per percuoterla…. fino a che il delirio non l’assale e l’esaltazione nervosa non la prostra poi come in uno stato spaventoso di catalessi.
Qualche ora dopo, quando il sole è più ardente, il tempio si sfolla, e le turbe dei pellegrini e le comitive gaie della buona società dei paesi vicini si disperdono in piccoli gruppi per il bosco, ridonati alla vita dopo un’ora di misticismo e di terrore. E su l’erba folta, ai piedi delle querce gigantesche, s’imbandiscono le mense. Si mangia, si beve, oh! come si beve, si motteggia, si ride, si canta, si fa all’amore…, o qualche volta, in omaggio all’avita fede, che un’ora prima rendeva epilettici gli uomini più forti e induriti al lavoro dei campi, si danno delle coltellate o, quando meno, si scambiano dei pugni e delle bastonate e si bestemmia come fiorentini.
Sul tramonto, i montanari riprendono la marcia sacra e si avviano a Monte Sant’Angelo sul Gargano, o si accampano nella foresta aspettando l’alba. Ma i galantuomini se ne tornano a casa, lieti ben pasciuti scettici e senza un pensiero che non sia di borghesuccia soddisfazione di aver fatto un buon viaggio.
E la V’ergine? E il tempio? Oh, a quelle malinconie pensa il povero vecchio sagrestano che alimenta le lampade e procura che alla Santa non manchi mai l’incenso della preghiera e il tributo dell’anima naufragata nel mistero !

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Author: Geppe Inserra

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