I reperti sequestrati a Becchina |
Insisto. Trascurare l’archeologia come fondamentale opzione di sviluppo per la provincia di Foggia è miope. Controproducente. Stupido.
L’operazione Teseo, che negli scorsi giorni ha portato al sequestro di migliaia di reperti tra cui quelli dauni recitano la parte del leone (5.631 pezzi in tutto) disegna anche dal punto di vista quantitativo e statistico i contorni di un fenomeno che si sospettava, ma che adesso emerge in tutta la sua evidenza. La provincia di Foggia è stata – e probabilmente ancora resta, nonostante il sistematico scempio del patrimonio – una delle zone a maggior vocazione archeologica d’Italia. Ma tutto ciò non produce, ancora, economia, occupazione.
Forse il problema sta nell’aver ritenuto l’indagine e la valorizzazione archeologica un problema di esclusiva competenza degli addetti ai lavori.
Sbagliato. L’affare non riguarda soltanto gli ambienti accademici e culturali. È questione che interessa e chiama in causa la comunità tutta e la sua classe dirigente. Il disinteresse che ha accompagnato l’amara vicenda della chiusura della laurea specialistica in archeologia conferma questa scarsa tensione culturale e politica.
La consistenza dell’immenso patrimonio sequestrato a Becchina dice che purtroppo i tombaroli sono stati assai più solerti dello Stato nel valorizzare, a loro modo, una risorsa che avrebbe dovuto essere invece un fattore trainante di sviluppo, in loco.
Il racconto di Giuliano Volpe è impressionante: “Tra le migliaia di reperti, emerge con forza la netta prevalenza dei materiali provenienti dalla Puglia, in particolare dalla Daunia (ma non mancano oggetti della Peucezia e anche della Messapia e dell’intera Magna Grecia): stele daunie dall’area di Siponto-Manfredonia, migliaia di ceramiche geometriche, policrome, a decorazione policroma e plastica, a fasce, listate, dorate/argentate, a vernice nera, sovraddipinte, cd. di Gnathia, ma anche statuine, terrecotte, antefisse, bronzi, armature, oreficerie, insomma un intero universo archeologico della civiltà della Daunia, databile tra l’VIII-VII e il III-II secolo a.C., irrimediabilmente asportato dai contesti originari delle necropoli di Arpi, Ascoli Satriano, Ordona, Salapia, Tiati, Canosa e altre ancora.”
È come se un territorio fosse stato scippato del suo futuro e depredato delle sue risorse naturali più importanti, senza che nessuno se ne fosse accorto.
Peccato che misfatti del genere sono una cosa tutt’altro che nuova, ed anzi accompagnano con inquietante costanza la storia recente della nostra terra.
Era successo già col metano, negli anni Settanta del secolo scorso. Ma almeno in quell’occasione la comunità si mobilitò, scese in piazza, chiese e ottenne, seppure parzialmente, una qualche forma di risarcimento.
La storia si sarebbe ripetuta con con i grandi vini dalla nostra terra, utilizzati per tagliare quelli deboli del Nord e più tardi con il pomodoro, pagato a prezzi da fame per essere utilizzato nei conservifici.
Negli ultimi anni o’obolo è stato pagato al paesaggio, assediato dai parchi eolici.
Che siano le vestigia del passato o il metano, il vino oppure il paesaggio oppure il pomodoro, tutto serve a saccheggiare le opportunità di crescita dei territori più deboli.
È il classico schema del sottosviluppo: le risorse naturali, storiche, culturali del posto più debole e sottosviluppato vengono usate per sostenere lo sviluppo del posto più forte, senza che il divario riesca ad attenuarsi.
Che superficie occupano cinquemila reperti, messi uno a fianco all’altro? Due campi di calcio? Forse tre? Pensate soltanto per un attimo se tutto questo ben di dio fosse stato utilizzato per fare della Daunia, quando era tempo, un punto d’interesse archeologico nazionale. Pensate come sarebbe potuto essere il modello di sviluppo di questa terra, tanto straordinariamente bella, quanto straordinariamente trascurata.
Non erano mancate voci lungimiranti che avevano indicato, allertato, messo in guardia: Silvio Ferri, Arturo Palma di Cesnola, Marina Mazzei, Giuliano Volpe. Spesso, troppo spesso, rimasti inascoltati profeti.
Il paradosso è che nessuna sa bene cosa fare, adesso, di questo immenso patrimonio ritrovato. Troppo grande per poter pensare di essere organicamente messo in mostra e, ormai come si usa dire decontestualizzato.
Il timore, paventato dallo stesso Volpe, è che “molti di questi materiali rischierebbero di finire in casse, nei depositi già affollati di musei e soprintendenze, tranne pochi esemplari particolarmente significativi. E questo aggiungerebbe beffa al danno.”
E se invece fosse arrivato il momento di fare il salto di qualità, collocando finalmente l’archeologia al centro del futuro della Daunia?
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