Manrico Trovatore (alias Enrico Ciccarelli) risponde alle riflessioni di Maurizio De Tullio sul giornalismo nell’era della crisi economica e del social network. Ecco la sua nota. Pubblicherò in una prossima lettera meridiana gli altri commenti.
A parte le reciproche affettuosità fra Maurizio e Geppe, sempre gradevoli e condivisibili, l’impianto generale della discussione mi pare incomprensibile. Stiamo parlando del giornalismo come professione, cioè come attività che qualcuno svolge per procurarsi da vivere (o comunque contro retribuzione) o di una qualche forma di missione o di volontariato civico? Perché la seconda è rispettabile, ma c’entra poco con la prima. Se il giornalismo è una professione, è parte di una attività economica, che come tale ha regole, costi, fattibilità. Possiamo dirci che questa attività economica è divenuta puramente e semplicemente inesistente? Che la totalità degli organi di informazione, con la residua e forse non permanente eccezione della Gazzetta (e del servizio pubblico radiotelevisivo) è priva di qualsiasi punto di consistenza economica e del tutto inadeguata ad offrire ai suoi addetti un livello di retribuzione e di tutele ragionevole? Che la totalità degli Enti pubblici ha disatteso le previsioni normative e i propri doveri ricorrendo, per le proprie attività di comunicazione, ad ogni tipo di stratagemma più o meno legale, ma certamente privo di linearità e di buonsenso?
Possiamo dire, anche ai sussiegosi censori d’occasione, che questo è la diretta conseguenza di un’opinione pubblica serva e becera, pronta all’indignazione un tanto al chilo, ma drammaticamente incapace di consapevolezza e di approfondimento? Se la lettura del giornale è la preghiera laica dell’uomo moderno, come diceva Hegel, Foggia è un luogo di ateismo tetragono e permanente. Crisi economica. intima struttura mafiosa dei poteri e della società civile (non mi riferisco solo agli aspetti specificamente criminali, ma a quell’attitudine a procedere per famiglie e cooptazioni tipica delle cosche), devastante ignoranza (che rende tanto più eroico il lavoro delle eccellenze culturali che questo territorio immeritatamente ospita) sono il micidiale cocktail che ha distrutto una vivacità un tempo evidente. Del vario e stimolante giornalismo foggiano (con i suoi ovvi errori, i suoi indiscutibili difetti, le sue evidenti tare) è rimasto il peggio: l’attitudine al gossip e alla demagogia, la “paranza loffia” che porta a moltiplicare la quantità e la velocità degli articoli e dei servizi, senza alcun riguardo per la loro esattezza e qualità.
Non è che io voglia essere apocalittico, anche se, da “emigrato residente”, faccio sempre più fatica a tenere a freno la mia intolleranza per l’imbecillità militante di troppi miei concittadini. Solo che faccio fatica a comparare il disastro immane che il mio sguardo contempla con le pur lodevoli raccomandazioni di Maurizio contro il pantofolismo.
I giornalisti, quelli che non sono riusciti a trovare un’uscita di sicurezza, non sono in pantofole: sono scalzi e laceri, ridotti ad una mendicità talora dignitosa e talora pitocca ed infame. Nel brodo che sobbolle si affacciano nuove idee, nuovi linguaggi, nuovi approcci: sono troppo vecchio per comprenderle tutte, queste novità, ed ancora più per praticarle. Prego ardentemente perché possano dare nuova veste e nuova vita al mestiere che disperatamente amo. Non credo che servano a questo scopo i fervorini sull’indipendenza. A proposito, sono il primo ad essere persuaso dell’eccellenza di Milena Gabanelli e della qualità di Report. La media dei suoi ascolti è del 13-14% di share. Significa che su cento persone che guardano la tv a quell’ora della domenica, ottantasei guardano altro. Così, giusto per stare con i piedi per terra.
Enrico Ciccarelli
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