Domenico Buccino replica al mio articolo sulla manifestazione romana della Cgil, e sulla mia considerazione che, in casi del genere, quel che conta sono i numeri, ovvero il milione di manifestanti. Ecco quello che scrive. A seguire la mia risposta.
Si, parliamo di numeri che sono importanti, certo, anche se per me pur se fossero state 10 persone comunque avrebbero avuto rispetto. Detto questo io, iscritto alla CGIL dal 1976, non c’ero e con convinzione, semplicemente perché da tutta la preparazione si era capito subito che sarebbe stata una manifestazione politica e non sindacale. Perché se così non fosse, manifestare contro l’introduzione della prevalenza del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, contro l’introduzione dei diritti negati, le tutele che molti lavoratori non raggiungono, le ineguaglianze nell’occupazione e nella disoccupazione, contro l’eliminazione di svariate forme contrattuali precarie, sarebbe semplicemente qualcosa di pazzesco!
Poi c’è la questione dell’art. 18 che ha dato lo spunto o l’appiglio per legittimare in qualche modo la manifestazione. A parte il fatto che atterrebbe solo i nuovi assunti e non già quelli che attualmente un contratto di lavoro già ce l’hanno e conservando comunque la possibilità del reintegro contro i licenziamenti discriminatori e disciplinari, ma la mia domanda è: ma siamo così sicuri che è l’art. 18 lo strumento di protezione del lavoro in Italia?
Negli ultimi sette anni si son persi un milione di posti di lavoro, come mai l’art. 18 non ha impedito tutto ciò? Evidentemente le ragioni erano altre, oltre alla crisi. Evidentemente nessuno si era accorto che dopo il 2002 (manifestazione con Cofferati e cui c’ero) sono entrate nella UE la Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Slovenia con possibilità attrattive di investimenti esteri molto allettanti. È da lì che è cominciato l’esodo biblico delle aziende italiane verso i nuovi lidi. Ora si potrebbe scrivere un trattato sulle motivazioni, ma resta il fatto che questo è, per cui o si cerca il modo per creare le condizioni per il loro ritorno e di attrarre altri investimenti privati attraverso le riforme della burocrazia e della giustizia civile oppure siamo destinati a peggiorare sempre di più. Altro che art. 18.
Caro Mimmo,
non sono d’accordo con le tue tesi (e in effetti, se lo fossi stato, non avrebbe avuto alcun senso andare a Roma). In una situazione come quella che viviamo, di assoluta crisi della politica, di una politica che considera i valori quasi una bestemmia e li riduce al rango di mera ideologia, che il sindacato faccia politica è utile (alla difesa della democrazia) e necessario.
Entrando nel merito delle tue tesi, tu lasci intendere che l’allargamento dell’Unione Europea a tanti altri Paesi ha sensibilmente modificato le regole del mercato del lavoro. Verissimo.
Ma quando si parta di articolo 18 e dintorni, si dimentica un dato elementare: l’Italia è il paese europeo in cui il mercato del lavoro è maggiormente privatizzato. Se le riforme avviate dal 2003, dalla Legge Biagi, non hanno sortito l’effetto sperato, una ragione c’è. Ed è su questo che si dovrebbe riflettere, piuttosto che indebolire ancora di più il sistema delle tutele.
È lapalissiano che non basta una riforma, buona o cattiva, a produrre più occupazione, perché il lavoro non si crea con le leggi, ma con politiche industriali appropriate. Ma è altrettanto lapalissiano che se le riforme non hanno funzionato, non è certamente superando l’articolo 18 che il problema può essere risolto.
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