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Domenico Napolitano è un poeta foggiano, che da anni vive ed opera al Nord, dove esercita la professione medica. La poesia è la sua grande passione. Questa ode, che ricorda la tragica estate del 1943 a Foggia mi è stata regalata da suo padre, Mario, partigiano e cugino del tenore foggiano Nicola Ugo Stame, martire delle Fosse Ardeatine.
Mario Napolitano è uno dei testimoni della memoria del bel documentario di Giovanni Rinaldi che ricostruisce i giorni dei bombardamenti che tra maggiore e settembre del 1943, rasero al suolo la città, provocando migliaia di vittime.
La poesia di Domenico Napolitano è colta e ricercata. Le rime ariose e classicheggianti si intrecciano con una ricerca verbale e sintattica particolarmente approfondita che rende la sua poesia originale e moderna. La sua ode è divisa in tre parti: l’arrivo degli aerei che recano con sé la terribile minaccia, i bombardamenti veri e propri, raccontati con un ritmo frenetico e coinvolgente. La conclusione è un omaggio alle vittime, espressione di una disumanata specie. Molto belli i versi finali. Rivolgendosi direttamente ai morti, Napolitano scrive: per il secolo brocco / come pellegrino nuvolo passaste, com’alito di scirocco: / siete qui rammemorati. È l’esaltazione della poesia come memoria, e come ponte verso l’eternità.
AI VENTIMILA IN MEMORIA
MAGGIO — SETTEMBRE 1943
Repente, nell’azzurro diffuso,
s’ode lontano un cupo rombo,
di mille eliche il rimbombo
col rotolar d’un tuono confuso.
S’indovina nella tersa mattina
un nugolo di punti che proviene,
poi, greve, più vicino diviene,
Ulula la sirena, fugge la gente,
tartaglia la mitraglia, ecco la vampa,
il cielo s’ottenebra, il terrazzano inciampa,
il frastornio assorda, annichila la mente.
Ormai sono sopra la città:
le stive si spalancano come bocche,
piove ferro dalle violenti rocche,
morte dispiega la sua varietà.
Come arpie s‘avvicendano ronzando
in squadriglie, in stormi predaci,
con proditoria foja disseminano iraci,
tra il rombazzo, (l’esecrabile) carico nefando.
Fischia la bomba,
sibila, strappa,
lacera, l’aria dilacera
veemente, implacabile si schianta,
dirompe, erompe,
inesorabile irrompe,
deflagra, conflagra,
di fumo e fuoco infusa
fulminea abbaglia,
d’intorno scaglia,
proietta quinoltre, maciulla,
subitanea avvampa la sulla,
percuote, abbatte, travolge,
furente squarcia, sconvolge,
sovverte, scardina, squassa,
terribilmente sconquassa,
il tuono rimbalza,
rotola, dilaga,
cavalca, si propaga,
precipite s’allontana
nell’arsura della chiana,
si smorza, discorde cede,
quindi riottosa si spegne.
Quali Erinni ferrose,
dieci noi seguono,
cento, poi mille esplodono furiose,
s’accavallano, rimbombano,
prorompono, si rinforzano,
si confondono, quasi s’azzuffano,
sfendono belluine,
passato e futuri profanano ferine,
diveltono, svellono,
straziano, impietose devastano,
un pandemonio scatenano.
Rosario di scoppi si sgrana,
incessante, martellante singulto
come gesto reiterato e inconsulto
d’un folle in preda a mattana.
Si scuote l’aria, s’arroventisce,
rimbalza, risucchia, tormenta,
frantuma, sgretola le fondamenta,
d’un subito tutto annichilisce.
Ventri squarciati, grida, lamenti,
arti stroncati, orrendi corpi bruciati,
sibili di morte per ore disseminati,
sembra imperversi l’inferno ai viventi.
Scopre la città il volto butterato
come per un rabido vaiolo
o deturpato a sfregio dal vetriolo,
in coma rantola il paese stuprato.
Sazi se ne tornano i predoni
come rapaci dopo l’auta epula,
greve intanto nell’aria tremula
il richiamo di scarduffata madre carponi.
Lodi non valgono né aurei blasoni,
tu resti, straziato paese, inulto,
nella storia inciso a esecrando insulto
foss’anche assurto fra le costellazioni.
Quel dì dov’era la sospita
vergine ammantata di sette Veli
che dal sismo già ti protesse da‘ celi,
colei dico dell’icona acheropita?
Postremo qui irato v’aggiungo
il memorando mio tener a sdegno
i cosiffatti liberatori additati a segno
e co‘ la rima immisericorde pungo.
E voi insepolti, ignoti occhi, non ululate,
reequie a voi e ossario quest’anima misericorde
di lacrime tumida e fiera con quanti sconcorde,
da tenaria ripa, ancorché sconsolati, più non reclamate.
In pace riposate, ostie intemerate,
ora più dell’aria inconsistenti,
nel pastoforio del cuore quietate, innocenti,
qui almeno, per sempre inobliate.
Per la disumanata specie, o vittimati,
per il secolo brocco
come pellegrino nuvolo passaste, com’alito di scirocco:
siete qui rammemorati.
Domenico Napolitano
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