Discussioni | Ivano Di Matto: “Pd e Cgil, ripensare il rapporto”

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Ivano Di Matto mi invia una lunga e articolata riflessione sulla lettera meridiana in cui, parlando della manifestazione della Cgil di sabato scorso, sottolineavo come la massiccia presenza di iscritti ed elettori del Pd crei un problema in seno allo stesso Partito Democratico. Ecco l’articolo di Di Matto, apprezzabile per il tono, per l’ampiezza dei punti di vista, e per l’approccio complessivo, che esula dalla polemica spicciola, per cercare di proporre una riflessione più ampia.

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Caro Geppe, la tua lettera, mi spinge alla seguente considerazione.

Il PD, quello che abbiamo oggi, non è figlio di Renzi, come erroneamente, o forse per semplicità, tendiamo a credere. Il PD è il frutto di un percorso politico e culturale che la sinistra italiana ha intrapreso sin dallo scioglimento del glorioso PCI.
Occhetto, e con lui la stragrande maggioranza del gruppo dirigente post-comunista (ad eccezione dei “miglioristi” da un lato e della sinistra dall’altro), non vollero un partito socialista o socialdemocratico (per ragioni varie, su cui non mi soffermo). Optarono per un partito democratico della sinistra, che aveva l’obiettivo di andare oltre e di aggregare e rappresentare ceti e interessi che mai erano stati rappresentati a sinistra.
Si ebbe, quindi, la stagione dell’impegno della cosiddetta “società civile”, con accademici, imprenditori e professionisti candidati a guidare enti o al Parlamento esclusivamente in ragione della loro stimabilità professionale e sociale.

Poi, ci fu l’Ulivo, un’alleanza di partiti “progressisti”, in cui, secondo il progetto iniziale, il fattore “coalizionale” doveva prevalere su quello “partitico” (e, in effetti, per buona parte dell’opinione pubblica progressista è stato così) Quindi, la proposta di Prodi, alle Europee del 2005, di presentare una lista unitaria dei partiti progressisti del centrosinistra. Proposta che, per un breve periodo, ma con poca forza, ebbe come contraltare quella di una lista dei partiti italiani aderenti al PSE. Si optò per la proposta prodiana. E lì, si diede una svolta ad un percorso che, in realtà, era già avviato anni prima. Si esce fuori dall’idea di un partito della sinistra classica, in senso europeo (socialista, socialdemocratico o laburista), Tant’è che il PD non si iscrive, nell’immediato, al PSE. E si sceglie la via di un partito “progressista”, in cui trovino rappresentanza, oltre alle correnti della sinistra “riformista”, le culture politiche, non di sinistra, ma progressiste, provenienti dalle culture cattoliche, liberali e laiche.
Questo era il progetto del PD. Che arriva a compimento, e si palesa, con Renzi, perchè Renzi, favorendo, almeno a livello nazionale, un ricambio del gruppo dirigente, emarginando, invece, il gruppo dirigente ex diessino (legato ad una visione più socialdemocratica), ha tolto il tappo a questo percorso.
Il PD, quindi, non è un partito di sinistra classica (che rappresenta, cioè, in maniera prevalente, gli interessi del mondo del lavoro dipendente), ma un partito progressista. Ed è un “partito di governo” e, per tanto, per sua stessa natura, interclassista: non si può avere l’obiettivo di governare una società senza rappresentare un vasto spettro degli interessi in essa presenti (o, peggio, venendo percepito con ostilità da alcuni di essi). Quelli rappresentati dalla CGIL, quindi, sono, oggi, una parte degli interessi rappresentati nel PD. È di questo che la CGIL deve prendere atto, pensando, nel contempo, a come rappresentare al meglio questi interessi nel PD e nel sistema politico italiano. Tenendo presente che il PD è cambiato anche sotto il profilo della “forma di partito” (anche in questo caso, all’esito di un percorso iniziato alla metà degli anni ’90). Infatti, con l’introduzione delle “primarie” aperte a tutti i cittadini per le cariche monocratiche e, soprattutto, per l’elezione del segretario, il PD ha concluso un lungo percorso, diventando un partito leggero, un movimento politico. Un movimento politico in cui gli iscritti (in diminuzione) e gli organismi dirigenti contano pochissimo. Contano, invece, il leader e gli eletti, a tutti i livelli.
Il partito è, in pratica, un “comitato elettorale”: indice le primarie per selezionare le candidature e compila la liste. La linea politica la stabilisce il leader che, per essere eletto segretario, ha presentato le sue idee ai cittadini (non agli iscritti…) e ne ha ricevuto il consenso. Ed è a lui che tocca la sintesi tra le proposte degli eletti. Ed il dibattito politico, più che negli organismi dirigenti, si sviluppa in associazioni “collaterali” al partito, che servono al singolo esponente politico a crearsi il consenso per l’elezione. A questo, aggiungiamo l’abolizione del finanziamento pubblico (che andava, indistintamente, al partito) e il passaggio a quello privato (la raccolta fondi la fa il singolo esponente politico). In termini pratici, questo significa che Renzi raccoglie i fondi alla Leopolda e li utilizza per le sue idee politiche, non li mette a disposizione, anche, di Cuperlo e Fassina, che sono i suoi avversari. Ognuno pensa per sé. E chi ha polvere spara.
In questo contesto, la CGIL, deve comprendere, a mio avviso, che due cose diventano necessarie per “contare” e tutelare gli interessi che la stessa CGIL rappresenta: l’elezione di propri rappresentanti nelle assemblee elettive e il lavoro di lobbing.
Scusami per la lunghezza, Geppe, ma non sono riuscito ad essere più sintetico. Ti abbraccio.
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Author: Geppe Inserra

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