Durante questa ondivaga estate, ho avuto la fortuna e il piacere di attraversare spesso le piazze democratiche. Amici e compagni mi hanno chiamato a moderare incontri e dibattiti alle feste de L’Unità, da Manfredonia a Cerignola, da Pietramontecorvino a Foggia, spesso per ricordare Enrico Berlinguer altre volte per affrontare temi importanti come la questione meridionale e la raccolta differenziata.
Ho visto dappertutto un partito vivo, che ci crede e che riflette, assai di più di quanto non raccontino le cronache.
In tutti i posti dibattiti affollati. Un desiderio nuovo di politica. Di tornare alla politica.
Ho visto il popolo delle primarie ormai stufo di discutere solo quando è raggruppato in quelle interminabili file, prima di esprimere un voto che assomiglia sempre a una delega in bianco. [Ho già scritto in questo post dello svuotamento di senso delle primarie].
A dirvela tutta, ho visto tre Pd.
Il primo è quello dell’uomo solo al comando della corsa che, perdonate la tautologia, ormai fa corsa a sé.
Il secondo è quello dei gruppi dirigenti che applaudono fervidi e ferventi l’uomo solo al comando della corsa oppure lo maledicono. Twittano ma non scendono in piazza.
Il terzo è quello che vuole tornare a fare politica nelle piazze, riflettendo, discutendo, partecipando. Sui temi veri del futuro, e non sulle poltrone dei cda. O anche semplicemente arrostendo salsicce e preparando crepes (leggendarie quelle di Pietramontecorvino).
La sorpresa è che ad essere minoritari sono i primi due Pd. Di questo terzo partito che non si vede – ma che c’è, eccome – fanno parte anche tanti dirigenti in carica, ex dirigenti, europarlamentari. Non è solo la mitica base.
Se le cose stanno così, non è difficile affrontare una volta per tutte il problema dell’anima e dell’identità del Partito Democratico.
Basta tornare a far politica. Spegnendo il computer e internet, riaprendo le sezioni.
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