Antonio Fortarezza. Andare via da Foggia, per imparare a volerle bene.

Antonio Fortarezza ha uno sguardo tenero, che ti conquista subito. Antonio ha nello stesso tempo uno sguardo profondo, che usa con una straordinaria efficacia quando attraverso video e fotografie racconta di disagi ed alienazioni, cogliendone i tratti di speranza. Ha uno sguardo che non s’arrende, che cerca di vedere l’invisibile.
Ho paragonato una volta una sua iniziativa culturale, la mostra Visibili/Invisibili al celeberrimo piano-sequenza finale che Antonioni filma in Professione Reporter per sottolineare la sua capacità di guardare, senza soltanto limitarsi ad osservare. Antonio sa guardare e al tempo stesso sa prendere parte alle cose che guarda.
Da molti anni, ormai, Antonio Fortarezza ha lasciato Foggia per stabilirsi a Milano. Negli ultimi tempi vi ritorna, però, un po’ più spesso. Gli ho chiesto di scrivere un capitolo di questa sorta di racconto collettivo che si sta componendo su Lettere Meridiane a proposito dell’emigrazione intellettuale, dei tanti foggiani che per scelta o necessità se ne sono andati.
Uno sguardo come quello di Antonio è prezioso. Per capire, per farci capire. Ecco la sua testimonianza.

* * * 

Mia madre si mise in fila, come tanti altri, nell’anticamera di un’allora potente onorevole. Non era per questuare un posto di lavoro ma per chiedere un luogo dove, io bimbo, potessi essere adeguatamente curato.
Anni dopo mia madre si mise in fila una seconda volta nella stessa anticamera, questa volta per questuare un posto di lavoro in qualche ufficio o fabbrica locale. No, non era per me.
Finito il mio percorso di studi foggiano e in cerca di primo lavoro mi suggerirono caldamente di rivolgermi a un politico locale di un partito che allora stava iniziando a prendere quota.
Quando il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto a scegliere liberamente il proprio rappresentante nelle istituzioni, diventa merce di scambio in occasioni di periodiche tornate elettorali, in quei momenti si perde. Si perde libertà e dignità e si permette ad altri di mettere le mani sulla propria vita.

Quando questo diventa prassi consolidata, vuol dire che si è creato un difetto di rappresentanza eticamente integra che crea le condizioni per trasformare i diritti, in favori elargiti dal potente di turno e verso il quale si instaura un malsano e indebito senso di riconoscenza.
 Si innesca così un circolo vizioso attraverso il quale viene meno la percezione del senso di giustizia sociale. A Foggia, a cavallo fra fine anni ’70 e gli anni ’80 a me tutto ciò era tangibile, evidente, soffocante. Un progetto di vita che contemplasse percorsi alternativi non riuscivo a intravederli. Così decisi di andarmene, subito, senza tentennamenti,  perché mi stava stretta, ero carico di voglia di fare – senza compromessi – e quindi investii una porzione di vita da un’altra parte.
Vivere in una città come Milano, con tutte le difficoltà che può comportare l’inserimento in un contesto in cui all’inizio sentivo di non appartenere (d’altra parte non molto diversa era la sensazione dei miei anni foggiani) mi ha permesso di guardare da una prospettiva diversa. Malgrado la lontananza fisica dalla mia città (ma forse proprio per questo), mi sono ritrovato col tempo ad avere un punto di osservazione migliore, più oggettivo.
 Osservavo Foggia non più solo dall’interno ma finalmente anche dall’esterno e inserita in un contesto decisamente più ampio, che mi ha permesso di capirla meglio facendone un confronto con altre realtà, vedere le sue ricchezze sprecate e intuire le potenzialità. E vedere meglio anche le sue zavorre invalidanti.
Ho cominciato ad osservarla nelle sue tante componenti.
Ho constatato come col tempo si siano ridotte in completo stato di abbandono architetture pregiate ed è sparito il bellissimo mercato con i suoi negozi di contorno che erano il paesaggio vivo di quel frammento di centro storico intorno a via Arpi, distruggendone anima e identità.
Ho constatato come le collaudate logiche “palazzinare” abbiano assunto una sistematica capacità invasiva fino a trasformare una grande fetta di territorio urbanizzato (per altro zona di estremo interesse archeologico) in un esteso dormitorio, fatto di condominii e villette a schiera monofamiliari imbellettate da giardinetti stile Topolinia. In sostanza un enorme quartiere sostanzialmente privo di spazi di socializzazione che impedisce un benché minimo senso di comunità e ad esclusivo vantaggio di un grande e desolante ipermercato confinante il quartiere.
Ho cominciato a vedere le violente storture nelle campagne attraverso le articolate e perverse dinamiche di sfruttamento bracciantile alimentate dalla presenza di migliaia di migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana e dall’Europa dell’est.
Ho constatato come quella che 30 e più anni fa era presente come piccola pur diffusa criminalità ora sia diventata “adulta”, probabilmente collusa, sicuramente cattiva e devastante per la città.
Ho constatato come il patrimonio archeologico sia sistematicamente privo di ogni progetto di valorizzazione, o perlomeno di tutela dell’esistente. Ma insieme ho acquisito consapevolezza anche della sua cultura millenaria, della bellezza e della diversità del suo territorio, delle grandi potenzialità di benessere che questi fattori possiedono. Ho intuito del senso di Identità che può nuovamente rinascere qualora si riuscisse a mettere in circolo tutto ciò.
E poi, ho cominciato a conoscere persone belle che resistono e che insistono nel cercare di proteggere e rigenerare quel che di buono ancora esiste, di sollecitare consapevolezza, di rimettere in circolo Cultura e Bellezza e di alimentare relazione propositiva fra le persone per ricostruire quell’indispensabile identità condivisa, spendendosi generosamente e credendoci senza cedimenti, pur navigando spesso contro corrente.
Ho scoperto come Foggia non sia una realtà isolata e marginale ma anche lei, nel bene e nel male, snodo di un sistema di relazioni e culture più vasto.
L’aver deciso di andarmene mi ha permesso, per contro e col tempo, di riavvicinarmi a Foggia più consapevolmente. Ho smesso di subirla e ho iniziato a confrontarmici. Forse non sarebbe accaduto se non me ne fossi allontanato per tempo.
Mi sono riavvicinato saltuariamente all’inizio poi con maggiore frequenza e l’aver avuto il tempo di ‘guardarla’ da una prospettiva ampia mi ha permesso di scegliere la modalità senza perderne l’orientamento. E di quel che avevo visto da lontano ho cominciato ad osservarne una parte – ad altezza d’occhi – e a volerlo in qualche modo a raccontare. E a forza di guardarla, Foggia, così da vicino ho ricominciato a volerle bene.
Pur così malconcia questa città, attraverso le persone che ne hanno cura malgrado tutto, l’ho vista esprimere appassionata volontà di non mollare e di resistere. A queste persone mi sono affezionato, seguendole attraverso le loro azioni o i loro scritti e a queste mi sono inizialmente rivolto quando ho voluto condividere le mie idee e i miei punti di vista. Da queste sono stato accolto con gratificante e immeritato favore quando ho presentato loro i miei progetti, ci hanno creduto e ne hanno favorito la condivisione con la città.
Mi ha fatto bene vivere lontano da Foggia anche se non l’ho mai persa di vista, è parte inscindibile di me d’altra parte. Ne ho sofferto, purtroppo spesso, leggendo dei suoi mali ma ne sono stato contento, più raramente, quando leggevo delle sue cose belle. Da un po’ non mi è più sufficiente rimanere spettatore passivo, mi piace l’aver ricominciato a guardarla negli occhi, ad ascoltarla e a raccontarla quando capace, anche lì dove a volte non si rivolge lo sguardo perché può far male.
Qualunque sia il motivo originario per cui sono partito continuo ora a sentirmi un migrante, ancora adesso non è detto che Milano sia la mia città definitiva. Non mi sento migrante nell’accezione greve che spesso questa parola si porta addosso ma in una più lieve, libera e arricchente perché questa condizione mi aiuta a sentirmi più tangibilmente parte e partecipe di un mondo più vasto rispetto a quello d’origine. E mi sento migrante quando porto con me la mia identità culturale e la esprimo confrontarmi con le altre. Mi piace constatare come le mie scelte di vita mi abbiano plasmato e aggiunto ogni volta tasselli di nuove identità, senza mai soffocare le precedenti.
Un’ultima piccola considerazione: non ho elementi sufficienti per capire se Foggia abbia energie sufficienti per risalire la china in tempi ragionevoli, ma sicuramente usare quelle oggi r/esistenti e circolanti può impedirne l’ulteriore declino.
Per ora è poco, ma è almeno qualcosa.”

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Author: Geppe Inserra

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