Deredia e la Grande Madre |
Ho letto e condiviso l’anatema lanciato da Savino Russo nei confronti dei foggiani che bivaccano a piazza Giordano (ovvero quello che dovrebbe essere il salotto buono della città). Sulla bacheca del gruppo Amici della domenica, Russo se la prende in modo particolare “contro i venti ragazzi e più che hanno scambiato la balaustra bronzea (quella che il famoso architetto ha “ammoccato” per imperscrutabili motivi….) per una panchina, appunto. Chissà quali altri danni faranno a breve, considerato che uno svolazzo terminale è già saltato.”
Savino conclude la sua denuncia domandandosi: “eliminiamo anche questa “panchina” o….? Già: o….”
Il problema posto da Savino non riguarda soltanto il discorso più ampio dello scarso senso civico dei foggiani, di cui Lettere Meridiane si è di recente occupata mettendo in evidenza la situazione di degrado in cui versano quasi tutti i monumenti della Villa Comunale.
Se da un lato l’episodio solleva nuove perplessità sul restauro della piazza, confermando che non è stata una buona idea modificare la curvatura della balaustra (prima perpendicolare rispetto al piano stradale, ed oggi più obliqua), dall’altro rilancia l’annosa querelle del rapporto da ritrovare – o forse da inventare – tra i foggiani e il loro patrimonio artistico, culturale, monumentale.
Poco o nulla si fa per migliorare questo rapporto, per spiegare ai ragazzi il significato e il senso del patrimonio monumentale e culturale della città. I monumenti, per essere amati, vanno fruiti, devono procurare un certo godimento estetico.
A tal proposito, voglio raccontarvi un episodio che mi è capitato giorni fa, e che va in tutt’altra direzione. Andavo al lavoro come tutte le mattine e stavo parcheggiando la bici nello spazio a ciò dedicato all’ingresso della nuova sede della Provincia, in via Telesforo.
Ho notato due vispi bambini che si facevano fotografare dalla madre, posando tra i diversi elementi della Genesi, il gruppo scultoreo che adorna il Palazzo, e che tempo fa fu orrendamente sporcato da un innamorato che per dichiarare i suoi sentimenti alla sua bella non trovò di meglio che imbrattarlo con un’orrenda vernice rossa.
Mi hanno colpito i gesti dei due bambini, la tenrezza ma anche la consapevolezza con cui si mettevano i nposa spontaneamente stabilendo un rapporto diretto, quasi osmotico, con l’opera d’arte, abbracciando e lasciandosi abbracciare dalla grande madre che l’autore, il grande scultore costaricano Jorge Jimenez Deredia vi ha riprodotto.
Ho pensato che la scena sarebbe piaciuta moltissimo a Jorge: quell’abbraccio tra i bambini e la grande madre esprime l’anelito del ritorno all’unità primigenia dell’umanità, “polvere di stelle”, che Deredia simboleggia nella sfera, ma è anche una conferma della straordinaria capacità delle sue sculture, di trasmettere emozioni e comunicare pensieri profondi, anche a bambini che sono per loro natura a digiuno di conoscenze estetiche ed artistiche.
Nel libro intervista scritto a quattro mani da me e Jorge (qui il testo completo, per chi volesse leggerlo), ad una domanda sul senso dell’opera d’arte mi ha risposto così: “Un’opera è sempre superiore all’artista, nel senso che, attraverso l’opera, l’artista può capire se stesso, e può permettere agli spettatori di capire parte di loro stessi.
Io non credo che un’opera d’arte possa essere spiegata e compresa mai fino in fondo: essa propone dei simboli. Quando questi simboli si ritrovano dentro noi stessi, allora l’arte acquista un vero significato, che va, quindi, ben al di là della pura dimensione estetica, della rappresentazione bella o brutta. È un avvicinarsi a quella verità che tutti quanti andiamo cercando, per cercare una risposta alle domande che riguardano la nostra esistenza.”
Ecco perchè la tutela del patrimonio artistico del terriotorio non è un affare che riguarda soltanto il senso civico.
I monumenti che si riferiscono a personaggi o ad opere, come quelli di Piazza Giordano o della Villa Comunale, hanno bisogno ovviamente di una mediazione culturale più complessa per essere fatti fruire (ed essere dunque fruiti con la dovuta consapevolezza), per procurare quel godimento estetico che li fa diventare poi parte profonda dell’identità di una comunità.
Ma la complessità non può diventare un alibi per rinunciare alla ricucire lo strappo tra la città e a sua memoria, che si esprime anche attraverso i monumenti. È giunto il momento che a Foggia si torni a fare cultura. Sul serio.
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"L'apatia e la tolleranza sono le ultime virtù di una società morente" scriveva Aristotele qualche migliaio di anni fa. Credo che entrambe siano i genitori dell'odierna indifferenza. Sembra una città alla deriva, una comunità senza speranza, apatica, menefreghista e impunita.Ognuno si sente in diritto di fare ciò che vuole, nella consapevolezza che tanto non gli accadrà mai niente. Una città con queste caratteristiche dove potrebbe mai andare se non al macero!?!