Vincenzo Concilio interviene nel dibattito su “Foggia bella o brutta” con un’articolata riflessione sulla categoria della bellezza, e su come essa possa venire applicata, a Foggia. Ecco quanto ci scrive Concilio, che ringrazio per il lucido e stimolante contributo.
Quanti volessero leggere i post precedenti sul tema, li trovano qui:
- Foggia è bella o brutta? Sul social esplode la discussione
- Volpe: “Amare Foggia significa saperla guardare criticamente”
Il bello è tutto ciò che ci ispira sensazioni estetiche piacevoli che nascono dalla armonia delle forme, dalla loro regolarità ed equilibrio.
Nel suo senso più profondo, la bellezza genera un senso di riflessione benevola sul significato della propria esistenza nel mondo.
La descrizione precedente di bellezza legata alla misura implica anche che la bellezza sia calcolabile e che, essendo essa calcolabile ed oggettiva, a seguire determinate regole si può produrre il bello, in architettura come nella pittura o complessivamente in tutto ciò che ci circonda.
Inoltre che la bellezza sia intellegibile.
Dal punto di vista architettonico ed urbanistico, pur disponendo la città di numerosi luoghi ricchi di fascino, armoniosi ed in equilibrio, qualche volte operando dei tagli al visibile circostante, occorre dire che il “brutto” ha dilagato e che non soltanto il “bello” gli spianò la strada, avendo a ciò contribuito in gran parte, cattivi governi locali e alcune specifiche classi imprenditoriali e professionali.
Non ci è dato di sapere se costoro si siano spinti a ciò, nella idea paradossale tutto ciò che è brutto sia utile mentre il bello è inevitabilmente inutile.
E neppure, si sono posti il problema di svelare la presenza del dolore e delle lacerazioni all’interno della società e di ritrovare in questo rimosso il senso più autentico del bello.
Ma, perché e come si è prodotto il brutto?
Che relazione v’è tra grado di civiltà, livello di cultura e bellezza?
La civiltà intesa come urbanità, nel tempo ha associato il riferimento esclusivo alla comunità cittadina identificandosi con l’osservanza delle convenienze in uso non più solo tra i cittadini, ma più in generale tra le persone che vivono in società, e come il frutto di un processo di educazione rivolto a questo scopo.
Questo è sufficiente per dire se una città civile o incivile?
E questa definizione serve alla valorizzazione del bello?
La risposta dipende in parte dalle nostre esperienze personali e in parte è invece valutabile in base ai risultati di crescita sociale, economica e culturale, prodotti dalla nostra comunità cittadina.
Freud nelle sue opere di argomento sociologico e antropologico sosteneva che la civiltà è “la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita”.
Oltre al sapere scientifico che permette il progressivo controllo e l’assoggettamento della natura, e all’organizzazione sociale, la civiltà comprende tutte le attività rivolte al perseguimento della bellezza, della cultura e dell’ordine.
Della bellezza, dell’ordine e della cultura?
Dunque, se abbiamo prodotto il brutto, è per mancanza di ordine e di cultura?
Possiamo riportare queste deduzioni all’interno della comunità cittadina?
Ad esempio, possiamo sostenere che una parte della comunità merita il brutto imperante mentre un’altra parte non lo merita?
Probabilmente sì.
Ma possiamo probabilmente dire anche che una gran parte della comunità non percepisce il problema mentre l’altra porzione o più d’una ne soffre e vorrebbe cambiare?
Probabilmente sì.
E dunque, se è così, come produrre il cambiamento, la trasformazione?
Puntando sulla parte della comunità più forte e sensibile e allo stesso tempo, ricostruendo il senso della comunità il cui legante dell’affezione nostalgica al nostro vissuto non è evidentemente più sufficiente…
Vincenzo Concilio
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Ecco: una città vivibile ma soprattutto "vissuta", coinvolgente, non affidata alle decisioni di chi , pur delegato al governo della città, non presuma di avere una delega in bianco, scarabocchiando progetti senza le specifiche, rigorose e verificate competenze. E le competenze non si classificano in base alle "appartenenze". La cultura è dialettica e la politica è "polemica". Poi, guarda caso, la parola "politica" ha, al suo interno, la "polis", quel luogo reale e ideale (non idealizzato) che non accumula esperienze ma le amalgama con un forte coraggio per lo "scarto", cioè l'esclusione di quanto non è convenuto per il "bene" e il "bello" della comunità.