Lettera aperta ai candidati (e agli elettori)

 Carissimi candidati,
leggo che sarete in 787 (9 di voi corrono per la fascia tricolore, 778 per un seggio in consiglio comunale), e potrebbe essere una buona notizia per Foggia, se utilizzerete la campagna elettorale non soltanto per inseguire i voti (il che è comunque sacrosanto, perché è così che funziona la democrazia), ma anche per pensare una città diversa, utilizzando le settimane che ci separano dal voto per scambiare con gli elettori idee e mettere a punto programmi sul come costruirla.
Che bello sarebbe se in queste settimane che ci separano dal voto la città venisse immaginata come utopia: che non è un non luogo, ma piuttosto un luogo possibile, da reinventare e quindi da guardare con occhi diversi.
Sì, vi sto chiedendo, in questi giorni, di guardare alla nostra città con uno sguardo diverso, di provare a sognarla come utopia che diventa buon luogo.
Vi suggerirei, a tal proposito, un autore e alcuni suoi libri. Dal momento che già vi chiedo uno sforzo e rendendomi conto che la campagna elettorale non è proprio il periodo più indicato per le buone letture, mi permetto di offrirvi qui un estratto di quel che mi piacerebbe leggeste e su cui vi chiedo di riflettere.
Precisando che l’invito vale ovviamente non soltanto per i candidati, ma anche per gli elettori, aggiungo che Lettere Meridiane è disponibile ad ospitare tutto quanto vorrete (candidati ed elettori) in termini di riflessioni, idee, proposte.
L’autore che voglio proporvi è Danilo Dolci, che è stato uno dei più straordinari pensatori e intellettuali cui il nostro Paese abbia dato i natali.

Non è possibile definire la grandezza di Dolci in poche parole (rimando alla bella voce su Wikipedia quanti vogliano approfondire): ma il suo pensiero, le sue opere, la sua azione politica hanno una prorompenza e uno spessore che ne fanno un personaggio monumentale del Novecento italiano, incredibilmente rimosso dalla coscienza civile e culturale del Paese.
Pur avendo vissuto quasi sempre in piccoli paesi periferici, immolando la sua vita alla causa del loro riscatto dalla mafia e dai poteri forti, Dolci amava molto la città, che riteneva utopia in se stessa. contrapponendola a ciò che è oggi un agglomerato urbano: un omile. Una definizione che mi pare dolosamente vera soprattutto per Foggia, sempre meno città, sempre più omile.
Ecco il tema che potrebbe far diventare la campagna elettorale appena iniziata non solo caccia al voto tutti i costi, ma un momento di elaborazione collettiva e di autentica democrazia: trasformare Foggia (o San Severo, o Lucera, o Troia, il discorso vale per tutti i comuni chiamati alle urne) dall’omile che è oggi, in una città.
I brani che seguono, estratti da tre opere di Danilo Dolci, costituiscono la voce dedicata a Urbe-omile/Città-Territorio nel preziosissimo libro di Michele Ragone, Le parole di Danilo Dolci,  (leggete qui la recensione che ho scritto per Resto al Sud, se vi va).
Dolci non enuncia un programma politico per la “sua” città. La osserva però con uno sguardo radicalmente diverso da quello della politicheria, e indica un metodo di costruzione della città nuova.
Sulla dimensione utopica del pensiero dolciano, nella prefazione del libro che ho citato, ha scritto cose molto interessanti uno studioso foggiano, Antonio Vigilante: “Ho parlato di utopia. Ma è davvero un’utopia? Il delirio del dominio ha portato l’umanità sull’orlo del baratro: per la prima volta, nella storia dell’umanità, la possibilità stessa che vi sia un futuro è incerta. Se interpretiamo l’utopia come outopia, non-luogo, allora utopistico è il dominio, la follia tecnocratica che sta conducendo il pianeta verso la distruzione, verso la negazione assoluta. Se leggiamo utopia come eutopia, buon luogo, allora il pensiero di Dolci è senz’altro utopistico. Ma non dovrebbe essere utopistico ogni pensiero? Non dovrebbero essere tutti i nostri sforzi – di pensiero, d’azione – diretti a fare del mondo in cui viviamo un buon luogo?
Ma, si dirà, non è più tempo per le utopie; il tentativo di trasformare questo mondo in un buon luogo si è risolto nella pianificazione dell’inferno. La stessa negazione delle utopie in realtà si presenta con caratteri utopici. Il neo-liberismo non promette forse benessere e prosperità per tutti? E questa promessa non nasconde una realtà fatta di miseria, diseguaglianze, sfruttamento, divisione dell’umanità nei pochi dominatori e nei molti dominati? Quel che occorre è recuperare l’utopia al di là dell’ideologia, lavorare per un buon mondo con la consapevolezza della complessità dei problemi.”

Una campagna elettorale può essere un’occasione molto propizia per lavorare per un buon mondo. Eccovi i brani di cui vi ho detto prima che  Michele Ragone estrae da tre opere di Danilo Dolci: Nessi fra esperienza etica e politica, 1993; Dattiloscritto, Palermo, 20 marzo ‘89, Chiesa dell’Uditore; Se gli occhi fioriscono, 1997.

“Le città moderne sono diventate luoghi d’imbottigliamento pauroso, di perdita di tempo e di luoghi pericolosi dove guadagnano terreno l’insalubrità, la delinquenza, la mafia.
L’urbe–omile è il luogo ammorbato dai propri rifiuti, il luogo dello spreco, delle chiacchiere e del fumoso rumore, centro di segreto dominio che trasmette e ritrasmette ingannando e inoculando. Essa aumenta le proprie dimensioni come una cisti parassita, o predatrice della campagna. Nell’omile disperatamente si cerca di surrogare con le più varie droghe la propria perduta creatività. Bisogna cambiare. “É civiltà il costruire condizioni per cui ognuno possa sbocciare e, attraverso il proprio impegno, fiorire creatura.” La città-territorio è, invece, il luogo in cui il sociale comprende non solo coloro che lavorano direttamente o indirettamente nella terra con la terra, ma anche animali, alberi e erbe, anche laghi e monti, verso la città terrestre. La città è il luogo «in cui ognuno, pensando attraverso i suoi occhi e le sue mani, sappia gioiosamente valersi di acque nitide e respirare venti puliti; la città che impari criticamente dal passato e impari a rispettare il futuro.”
[Nessi fra esperienza etica e politica, 1993, II, pp. 67-8.]

“[…] So troppo poco, sappiamo troppo poco della passione di Gesù, e del suo rapporto con la città. […]
La sua città già qui ed ora è impegnata a costruire nuova terra e nuovo cielo. Non tende ad essere l’omile ammorbato dai propri rifiuti, il luogo dello spreco, delle chiacchiere e del fumoso rumore, ma il luogo dell’incontro per valorizzare chi ha saputo guardare, chi cerca leggere nei volti degli alberi, dei fiori, dei semi, nei volti della gente più diversa (ogni volto esprime una vita ma risulta anche espressione di altri volti e di altra vita, risulta parabola); l’incontro di chi sa leggere nelle semine come nel volo degli uccelli, sa leggere su quali terreni si può fabbricare e su quali terreni si può seminare; il luogo dell’incontro di chi cerca vedere, e nel silenzio meditare, pure quanto l’occhio nudo non raggiunge.
Una città dove i bambini possano esprimersi e siano rispettati, non scandalizzati e in infinite forme violentati – ove la scuola non atomizzi massificando. Non l’omile che aumenta le proprie dimensioni come una cisti presuntuosa e lussuosamente parassita, o predatrice, della campagna. Non l’omile in cui le folle ammassate, frastornate, per difendersi si ottundono incallendo le proprie percezioni, ma una città–territorio in cui il sociale comprenda non solo coloro che lavorano direttamente o indirettamente nella terra con la terra, ma anche animali, alberi e erbe, anche laghi e monti: verso la città terrestre.
Non il più o meno confortevole omile di moltitudini–imbuto, di inoculati biotelericettotrasduttori che eseguono quello che viene loro insegnato, pre“dicato, condizionato dai centri del dominio, ma una città di creature, ognuna attenta a verificarsi e potenziarsi con le altre: ove i lontani, gli estranei (talora porta a porta) imparino a riconoscersi e cooperare.
Non l’omile che, forzatamente e per omissione, viene deciso altrove, dall’esterno; non l’omile in cui disperatamente si cerca surrogare con le più varie droghe la propria perduta creatività: ma la città che, dall’intimo dei suoi quartieri, con sempre nuova capacità progettuale e operativa, in nuove prospettive fiorisca costruita da chi veramente ami la vita e voglia vivere la città in cui ognuno, pensando attraverso i suoi occhi e le sue mani, sappia gioiosamente valersi di acque nitide e respirare venti puliti; la città che impari a rispettare criticamente il passato e impari a rispettare il futuro.
Non un centro di segreto dominio che trasmette e ritrasmette ingannando e inoculando (sparare e inoculare possono essere mai comunicazione? può mai essere comunicazione la pubblicità di una marca di sigarette che in un anno ha investito duemilacentotrenta miliardi di lire per incitare al fumo? per intossicarti?). Ma la città che più e più veramente impari a comunicare: una città in cui il sapere sia conquista gioiosa – seppur faticosa – di ciascuno, e collettiva invenzione.
La vita si intossica se non impariamo a comunicare: dunque a non infestarci, a crescere creativi insieme. Una città ove la speranza cresca dall’esperienza che è possibile innovare radicalmente quanto è inaccettabile (quando si sa riconoscere i sintomi), cause e problemi: e ove si impari a risolvere identificando e svegliando le forze necessarie a produrre fatti veramente nuovi.
Mai la follia è tanto pericolosa come quando si pretende norma razionale, scientifica.
Una città che fondi la sua forza non sulle furbizie della politicheria ma sulla rischiosa ricerca della verità. Una città in cui i servizi pubblici e il pratico amministrare vengono resi disponibili non attraverso i ricatti ma nella trasparente competenza. Una città, a sua volta quartiere della città terrestre, dove si affrontino le contraddizioni e i conflitti in modo nonviolentemente civile: ove le singole autonomie imparino a coordinarsi. Una città in cui si continui a imparare il rispetto reciproco considerando meravigliati le infinite soluzioni delle infiorescenze – in cui ogni fiore respira – e osservando il rapporto tra le api e i fiori; e a valersi di nuovi prodotti tecnologici e di opportuni servizi telematici non per impedire ma per potenziare il comunicare autentico, mettendo ognuno nella condizione di decidere scegliendo coscientemente, responsabilmente. Distinguendo il trasmettere obbligante dal comunicare. La scienza-arte politica – a ogni dimensione, dalla locale alla planetaria – non resta sovente a livelli tragicamente insufficienti perché esprime l’intrecciarsi complesso di acerbi, inesatti e fuorvianti rapporti?
Una città che impari a riconoscere come il disorientamento psichico rende ogni organismo vulnerabile: come coscienza e sistema immunitario sono correlati.
Una città in cui il lavoro non rapini la terra, non spenga la biosfera ma cerchi di imparare a valorizzare per tutti le più diverse energie, soprattutto quelle illimitate. Una città in cui il lavoro non distrugga ma potenzi la salute. Una città che concepisca l’evolversi come uno strutturarsi sempre più complesso che chiede, interpretando, coordinarsi.
Una città che aiuti i giovani a individuare i propri problemi valorizzando le potenzialità del territorio: aiuti i giovani angosciati, disperati, i giovani che risultano soli e pur ammassati, a uscire dalla smania di distruggere la realtà che li rifiuta, a sortire dal tifo per scopi insufficienti e dal fanatismo per modelli svuotanti, individuando i propri veri interessi: nel raggiungere i quali, imparando a comunicare, invece di esplodere bruciandosi la loro forza cresca per il cambiamento proprio e del mondo.
[Dattiloscritto, Palermo, 20 marzo ‘89, Chiesa dell’Uditore.]

fiumi sprecati
aride montagne erose
a ogni piovasco allagano,
case senza respiro,
le scuole sono camuffate galere,
dalle fontane quattro pisciatelle
tra qualche frasca nel giardino pubblico
la domenica.

Restare inerti? vagare
altrove per venderci?
O destarci nel sogno di salvare
la vita della terra?

Proviamo concepire
nitidi laghi in una città nuova
tra spiagge terse e boschi rilucenti.
Non abbiamo altra arma che svegliarci
trasformando miliardi di minuti sprecati e lagne
in forza organizzata –
da un centro del mondo
siamo immersi in una guerra integrale
da cui dipende anche il futuro esistere.
[Se gli occhi fioriscono, 1997, p. 24.]”

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Author: Geppe Inserra

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