Posto tre righe bislacche sulla ministra della salute e piovono commenti e “mi piace”. Sollecito opinioni e giudizi su possibili evoluzioni del Festival del Cinema, esortando ad esprimersi e a non limitarsi al “mi piace” e basta, e la risposta è zero totale.
Tra significanti e significati dovrebbe esservi sempre una qualche coerenza, di quantità e di qualità. Mi pare che il social network abbia fatto saltare questa speculare armonia, che da sempre governa la legge della comunicazione.
Su Twitter si cinguetta. Su Facebook è peggio ancora: le parole hanno ceduto il posto ai selfie. Parole sempre più brevi per pensieri sempre più brevi da un lato, dall’altro la rinuncia totale alla parola in omaggio all’immagine ostentata di se stessi.
Siamo ormai prevaricati (il ragionamento vale anche e soprattutto per la politica) da una concezione narcistica della comunicazione. Il mostrarsi e l’apparire hanno la meglio sul parlarsi e lo scambiare.
Forse è la fine stessa della comunicazione. O almeno di quella che Jaspers riteneva fosse la sua funzione essenziale: il processo per cui l’altro diventa un tu, e io e l’altro diventiamo un noi.
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