Pontelandolfo come le Fosse Ardeatine?

È legittimo paragonare a quello delle Fosse Ardeatine l’eccidio operato dalle truppe “italiane” il 14 agosto del 1861, quando per rappresaglia contro l’uccisione di 45 soldati ad opera di briganti e semplici cittadini, due paesi – Pontelandolfo e Casalduni – vennero letteralmente rasi al suolo?
Quando si parla di storia, i paragoni sono sempre in qualche modo azzardati e arbitrari. Ma i due fatti posseggono molti aspetti in comune, come la ferocia della vendetta e il fatto che la barbara ritorsione fu operata da truppe di occupazione.
Differisce radicalmente invece la “fortuna” arrisa ai due episodi. La storia, si sa, la scrivono sempre i vincitori, così se le Fosse Ardeatine sono diventate un simbolo della ferocia nazista, poco o nulla si sa della violenza delle truppe piemontesi.
A ricordare i fatti di Pontelandolfo e Casalduni è l’amico lettore Vincenzo Concilio, in un commento al post su Nicola Stame, il tenore foggiano ucciso dal tedeschi alle Fosse Ardeatine.
“Senza nulla togliere alla memoria di Nicola Stame e alle vittime delle Ardeatine – scrive Concilio – , è opportuno ricordare che ci sono stati degli eccidi commessi durante l’occupazione militare piemontese del Regno delle Due Sicilie, come Il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, una strage compiuta dal Regio Esercito ai danni della popolazione civile dei due comuni in data 14 agosto 1861.
Tale atto fu conseguente alla uccisione di 45 militari dell’esercito piemontese (un ufficiale, quaranta bersaglieri e quattro carabinieri), catturati alcuni giorni prima da alcuni “briganti” e contadini del posto. I due piccoli centri vennero quasi rasi al suolo, lasciando circa 3.000 persone senza dimora.”

Concilio riporta anche due agghiaccianti citazione. L’ordine impartito dal  Gen. Cialdini di Castelvetro di Modena al colonnello Negri, veneto («Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra.») e la testimonianza di Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono alla spedizione punitiva, che scrisse nelle sue memorie quanto segue.
« Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti (63) e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava. »
Ai fatti di Pontelandolfo nell’album Unità, gli Stormy Six dedicarono una bella canzone, ormai rarissima, che è stata una sorta di inno negli anni della contestazione giovanile. Eccola, qui sotto

Views: 0

Author: Geppe Inserra

3 thoughts on “Pontelandolfo come le Fosse Ardeatine?

  1. Gentilissimo Geppe Inserra,
    più che paragonare le fosse Ardeatine all'eccidio di Pontelandolfo e Casalduni, ho voluto sollevare l'interrogativo sul perché alcune stragi sono diventate simbolo perenne della storia recente o passata che sia mentre, altre sono invece state completamente occultate; perché alcune sono propagandate, esibite, mentre altre sono imboscate, oscurate, non godono cioè del diritto di "cittadinanza" storica?
    E perché mai, tutti si siano adattati a questo nascondimento?

    Eppure, i piemontesi misero in stato di assedio tutte le province del Mezzogiorno continentale. L'allora ministro della Guerra istituì Tribunali di guerra a Potenza, a Foggia, ad Avellino, a Caserta, a Campobasso, a Gaeta, a L’Aquila, a Cosenza che si aggiungevano a quelli di Bari, di Catanzaro, di Chieti e di Salerno. Il comportamento dei giudici militari di quei tribunali è stato a dir poco spregevole, orripilante: gli assassinii venivano  legalizzati da un ufficiale facente le funzioni di giudice; le condanne a morte furono tante, tantissime, a volte anche senza processo. Quegli ufficiali mettevano a verbale solo qualche processo intentato dalla giustizia ordinaria, gli altri no.

    Pasquale Stanislao Mancini,  qualche anno più tardi affermò di volersi astenere dal meglio precisare le critiche verso quei tribunali di guerra, per non essere costretto “ a fare rivelazioni, di cui l’Europa dovrebbe inorridire” (Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano, 1983, pag 287)

    Erano stati condannati a morte colla fucilazione individui volontariamente presentatisi, minorenni non catturati in conflitto, individui non punibili per brigantaggio ma soltanto per reati comuni…mogli di briganti condannate ai ferri a vita… fanciulle inferiori ai 12 anni, figlie di briganti avevano subito condanne di 10 o 15 anni…” (Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli editore, Milano, 1983, pag 287).

    Non per niente, Antonio Gramsci  scriveva: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l´Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti".

  2. In applicazione della legge Pica, vennero istituiti sul territorio delle province definite come "infestate dal brigantaggio" (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio.
    Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso.

    Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all'arresto, mentre coloro che non si opponevano all'arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati.

    Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio.

    Nelle province definite "infette", venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa.

    Il 1861 è un anno che ogni meridionale dovrebbe ricordare, non per la pseudo unità imposta con la forza, ma perché quell'anno i Savoia iniziarono il massacro del Sud. Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, scrive Antonio Ciano nel suo "I Savoia e il massacro del Sud", "un milione di contadini furono abbattuti; anche se i governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno doveva sapere".

    E nessuno ha mai nessuno ha potuto sapere per molti molti anni, fino a quando l'era di Internet ha modificato radicalmente la condizione di monopolio informativo preesistente.

    Sconcerta pertanto vedere come lo Stato continui a rappresentare soltanto spezzoni di Storia, quella più conveniente al potere costituitosi sin dal Regno d'Italia e poi “rinnovatosi” con la Costituzione repubblicana.

  3. Ancora la settimana scorsa, in un articolo sul "Corriere del Mezzogiorno", Josè mottola, scriveva testualmente:"è vero che i reparti inviati da Cialdini sul posto nell’agosto del 1861 fecero una strage di civili orrenda e ingiustificabile, ma è pur vero che essa era stata preceduta dall’orrendo sterminio, per mano degli insorti, di un reparto di fanteria". Come dire la rappresaglia, fatta dai piemontesi, è giustificata. Fatta dai nazisti è genocidio….

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *