Nel campo di concentramento di Bergen Belsen, a pochi metri dai forni crematori, la mano ignota di una delle vittime della barbarie nazista ha inciso con un chiodo una frase tragica, e nello stesso tempo struggente, che dice così: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.”
In quel campo di concentramento si trovano le spoglie mortali di una bambina che ci ha lasciato il racconto più drammatico e commovente di quegli anni terribili e oscuri. Ma nessuno sa di preciso dove giacciano i resti di Anna Frank.
Dopo averle tolto la vita ed il futuro, il nazismo voleva condannarla anche all’oblio ed all’anonimato.
Goebbels, uno che di stermini se ne intendeva, amava affermare che “un morto è uno scandalo, mille morti sono una statistica”.
Eccidi e stragi vennero fondati su questa agghiacciante filosofia: uccidere per far numero.
Uno scandalo si ricorda, una statistica si dimentica. Uccidere per far diventare i morti un numero, distruggendo anche le loro storie individuali. Obliterando la memoria: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”.
Accadde più o meno lo stesso alle Fosse Ardeatine. Oggi ricorre il settantesimo anniversario del più tragico ed efferato episodio di cui si macchiarono in Italia gli occupatori nazisti. Trecentotrentacinque militari, partigiani e civili massacrati e nascosti nelle antiche cave di pozzolana per non farli più trovare. Per condannarli non solo alla morte, ma anche all’oblio.
Per evitare che la statistica metta a tacere lo sdegno e lo scandalo, non c’è che un modo. Impedire la condanna all’anonimato. Raccontare per ricordare. Usare la parola e la storia come antidoto all’oblio. Come diceva il più grande scrittore e poeta sudamericano, Joao Guimaraes Rosa, “narrare è resistere”.
L’anniversario dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine, che ricorre oggi, è l’occasione per ricordare la storia di Nicola Ugo Stame per rammentarla ad una città che fino ad oggi non ha ancora saldato il debito di memoria verso questo concittadino che venne trucidato nella pagina più oscura e drammatica dell’occupazione nazista in Italia.
Stame era un artista, un tenore, precisamente, dotato di una voce possente e destinato ad una brillante carriera. Chi tenacemente lotta per ricordarlo ad una città immemore è suo cugino, Mario Napolitano, che qualche anno fa ha proposto di intitolargli il Teatro del Fuoco. L’iniziativa è stata sostenuta da una petizione popolare sottoscritta anche dall’Anpi e dalla Cgil. Fino ad oggi non se n’è fatto niente.
Ma quel che è peggio è che non c’è neanche una strada a ricordare il martire. Solo un vicolo, al Rione Martucci.
Stame si trovava a Roma nel corso dei fatti che gli sono costati la vita, perché era emigrato nella Capitale da Foggia con tutta la sua famiglia, nel 1934. Aveva 26 anni, ma già aveva girato il mondo. Ad appena 16 anni se n’era andato in America del Sud, a cercare fortuna. A Roma, aveva cominciato a dedicarsi al canto, subito notato dai maggiori maestri e critici romani, che gli pronosticavano una carriera di primissimo piano.
In effetti Nicola Stame fu un tenore eccezionale. I giornali dell’epoca descrivono la sua voce come potente, duttile, squillante. Ma mentre crescevano i suoi successi artistici, aumentava anche la sua passione politica. Il suo impegno sinceramente antifascista, maturato probabilmente durante la campagna di Spagna, fu un ostacolo decisivo alla sua consacrazione artistica che pure sembrò più volte sul punto di conquistare. Il primo arresto risale al 1938, mentre provava Turandot, alla vigilia dell’ammissione al Teatro Reale dell’Opera di Roma e dell’esordio alle Terme di Caracalla che gli avrebbe sicuramente schiuso le porte dei maggiori teatri italiani.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, l’attività antifascista di Stame si intensificò.
Quando nel 1943 cadde il fascismo, si iscrisse al Partito Comunista Italiano e prese parte, come partigiano, alla battaglia che, tra l’8 ed il 10 settembre, contrappose soldati regolari italiani e partigiani ai nazisti, nel disperato tentativo di impedire agli ex alleati tedeschi di occupare la Città Eterna.
Quando si iscrive al PCI clandestino e prende parte alla guerra armata, Nicola Stame è al culmine della sua attività artistica. Ed è in questo contesto che si iscrivono le vicende che portarono, l’anno dopo, all’attentato di Via Rasella ed all’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Ad agosto del 1943, il governo italiano, in procinto di firmare l’armistizio, aveva dichiarato Roma città aperta, ma tale status (che avrebbe dovuto impedire i bombardamenti e garantire l’occupazione non cruenta) non venne riconosciuto né dai Tedeschi che da alleati si sarebbero di lì a poco trasformati in occupatori, né dagli angloamericani.
La città aperta paradossalmente aumentava il livello di belligeranza, anziché attenuarlo. Erano frequenti le azioni di sabotaggio verso le truppe ed i comandi germanici. La tensione crebbe ancora all’inizio del 1944,con lo sbarco ed Anzio e la durissima battaglia a Cassino.
Via Rasella è un centralissima strada di Roma, ubicata nel cuore della città aperta. Il 23 marzo del 1944, circa sei mesi dopo l’occupazione dei Tedeschi, mentre passava un’autocolonna tedesca che da almeno una quindicina di giorni violava le norme della città aperta, venne fatta esplodere una bomba che provocò la morte immediata di ventisei soldati tedeschi ed il ferimento di altre decine. Il bilancio definitivo dell’attentato sarebbe stato di 32 militari tedeschi e tre civili italiani, morti non si sa se per effetto dell’esplosione o per la reazione dei militari che si misero a sparare all’impazzata.
I tedeschi decisero immediatamente di attuare una rappresaglia ed effettuarono un rastrellamento generalizzato, che provocò l’arresto di decine di ebrei. Si decise di fucilare dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso.
Le vittime furono scelte con cura meticolosa, tra gli ebrei catturati nel rastrellamento, e soprattutto tra antifascisti e partigiani che si trovavano già rinchiusi nelle carceri di via Tasso e Regina Coeli.
Tra questi c’era Nicola Stame, arrestato per la sua attività di partigiano e ristretto a Regina Coeli dal 24 gennaio, da due mesi. .
Più volte interrogato e torturato, si era sempre rifiutato di fare il nome dei suoi compagni di lotta. Nicola Ugo Stame venne giustiziato il 24 marzo del 1944. La salma verrà rinvenuta quattro-cinque mesi dopo, e soltanto allora sarà possibile fare la conta esatta delle vittime e dare un nome a tutte.
Il cadavere dello sfortunato tenore foggiano venne ritrovato riverso sul fianco destro, con i polsi legati dietro la schiena; il cranio devastato da un colpo d’arma da fuoco esploso a distanza ravvicinata. Quand’anche si fosse salvato non avrebbe più potuto cantare perché gli era stata quasi sfondata la cassa toracica.
Nelle tasche del cappotto e della giacca, pochi miseri effetti personali: alcuni fazzoletti, un tubetto di dentifricio con lo spazzolino, un crocifisso. Piccoli oggetti di vita quotidiana, che aggiungono un ulteriore tassello all’agghiacciante mosaico del barbaro eccidio. Quando l’artista foggiano e i suoi compagni vennero prelevati dalle celle per essere portati alle Fosse Ardeatine, non sapevano di andare incontro alla morte. Forse addirittura sognavano di tornare in libertà.
Con Nicola Stame caddero altri 334 tra militari italiani, partigiani e civili. Antiche cave, le Fosse Ardeatine erano state scelte dal comando tedesco al fine di poter occultare più facilmente i cadaveri, condannarli all’oblio e all’anonimato. Per farli diventare freddi numeri e statistiche.
Per questo Foggia dovrebbe ricordare meglio questo suo concittadino.
Come disse Sciascia, “Il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”.
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