San Giovanni Rotondo, quando non c’era ancora Padre Pio

La lettura de Il Gargano di Antonio Beltramelli (ho parlato di questo libro stupendo in un’altra lettera meridiana, che vi suggerisco di rileggere per meglio inquadrare il brano che sto per offrivi) lascia una suggestione profonda. Non solo per la pregnanza della scrittura del grande giornalista, ma anche perché ci offre un’immagine assolutamente inconsueta della Montagna Sacra.
Sono passai poco più di cent’anni da quanto il volume venne scritto, come parte di una collana dedicata all’Italia Artistica. Eppure sembra che l’autore parli e descriva un’altra epoca.
La fattura letteraria delle pagine che seguono, dedicate a San Giovanni Rotondo, è altissima. Al di là della ricostruzione del passato della cittadina che sarebbe poi divenuta nota in tutto il mondo grazie a San Pio, ricostruzione doverosa in una pubblicazione che aveva comunque lo scopo di essere una guida turistica, il resto è del tutto sorprendente.
Beltramelli scrive pagine memorabili raccontando gli ori indossati dalla donne di San Giovanni, il rapporto tra i maiali e gli abitanti. Stupisce poi il cambio di ritmo quanto l’autore va a visitare il Convento dei Cappuccini, che all’epoca non ospitava più i frati (padre Pio vi sarebbe arrivato diversi anni dopo), ma ciononostante è descritto come un luogo di straordinaria sacralità e commozione.
Per me è stata una davvero una buona lettura. Spero sarà lo stesso anche per voi.
* * *
Siamo in via verso San Giovanni Rotondo, il sole è per morire, rasenta le vette estreme del promontorio, declina verso il suo letto d’oro, nel quale, secondo la leggenda, lo attendono ventiquattro sorelle. Un gruppo di mietitori che vediamo in un breve campo, sotto la via, ha abbandonato il lavoro ; inginocchiato in semicerchio verso il sole morente, prega ad alta voce. Non intendo le parole; il suono è grave, uguale, continuo, è come uno spasimo di stanchezza. Saranno dieci uomini forse, la maggior parte giovani ; vestono l’antico costume del Gargano. Li guardo nella solitudine del piccolo pianoro finché la strada, in una svolta, li nasconde. 

Andiamo verso la sommità di un piccolo contrafforte ; alla nostra sinistra troneggia il grande dorso di Monte Nero, che è una delle più alte vette del Gargano (1011 m.); scopriamo ora la dolcezza del mare che si rivela in una pallida azzurrità lontana. Comincia la rapida discesa ad un tratto ; la strada piega a sinistra fra gruppi di alberi e campi coltivati ; appare, come in un gran seno di monte aperto contro l’infinito dei cieli e del mare, San Giovanni Rotondo. 
Il sole che muore, profonde su le piccole case come una ruggine lucente onde tutto si parifica in essa ; è un dolce paese sperduto in queste altitudini (sorge a 557 metri sul livello del mare) ; un nido di riposo di un popolo pastore che abbisogna di molta pace dopo l’aspra vita del giorno intero. Incontriamo bifolchi e pastori che ritornano alle loro case nel paese; alcuni seguono i margini della via lentamente ; altri, seduti su larghi basti, trascorrono sui loro asinelli, saltellanti a guisa di capre. 
L’origine di San Giovanni Rotondo devesi all’emigrazione (avvenuta fra il 1007 e il 1095) degli abitanti di Castel Pirgiano, il quale sorgeva su la vetta del monte che sovrasta la città nuova. 
In epoche posteriori, agli abitanti di Castel Pirgiano si unirono gli abitanti di borgo Sant’ Egidio e del Castello alle Coppe, i quali erano continuamente molestati dagli avventurieri. 
Circa Castel Pirgiano è tradizione che debba l’origine sua ai seguaci di Diomede, i quali scelsero tal luogo per fortificarvisi. I Pirgiani in età non definibile edificarono, alle falde del monte da essi abitato, un tempio al dio Giano di forma rotonda. 
In prosieguo di tempo, come il cristianesimo soppiantò l’antico culto pagano, detto tempio fu consacrato a San Giovanni Battista. Si ammira tuttora, quantunque deteriorato e rozzamente deturpato da un’ala aggiuntavi nel 1600.
Sarebbe bene ridare alla gentile costruzione le sue prime proporzioni. 
Dal santo al quale fu riconsacrato e dalla forma del tempio prese nome il paese, il quale ne’ suoi primi tempi ebbe come feudatario l’abate del monastero di San Giovanni in Lamis (ora San Matteo) sotto la protezione dei Normanni che risiedevano a Monte Sant’Angelo. 
Nel 1177 il normanno Guglielmo II assegnava in dote, per solo possesso di onore, alla sua sposa Giovanna, figlia di Enrico II Plantogenito, S. Giovanni Rotondo. 
La città si distinse alla terza crociata per il largo contingente di uomini che mandò in Terra Santa. Nel XIV secolo, stante le continue scorrerie degli avventurieri di terra e di mare, si cinse di mura, delle quali oggi non rimane traccia. Secondo quanto afferma Michelangelo De Grazia, dell’antica Castel Pirgiano o Castellano si vedono tuttora sul monte che sovrasta San Giovanni Rotondo, gli avanzi delle mura, le quali misurano un circuito di circa un miglio e mezzo. 
Oltre l’antico tempio di Giano che ho citato più sopra e poco distante da esso sì ammirano le rovine della chiesa di Sant’Onofrio, antica parrocchiale, la fondazione della quale rimonta al secolo XIV. È di uno squisito gotico. Su la facciata che, a dispetto degli uomini e del tempo, si mantiene quasi intatta, si apre un ampio e pregevolissimo rosone,. L’ interno della chiesa è in compiuta rovina ; fra macerie e rovi si eleva ancora qualche arco coronato di fiori silvestri e parte dell’abside nel quale una finestrella archiacuta è fissa ai cieli come un occhio spento. 
Le donne siedono accosciate su le soglie qua e là per questi vicoletti caratteristici pieni di scale, di porte, di antri, di monelli, di maiali, e di sudiciume. I fiori che occhieggiano, sboccianti da certe anfore tipiche di colore indefinito, perdono signoria di fronte ai costumi delle donne tanto sono ricchi e lindi. Lindi, sì, ch’ io non ho visto mai bianco maggiore di vesti, fra maggior laidume d’ambiente ! 
Vestono, le belle figlie del monte, una breve gonna pieghettata che lascia scoperta la finezza dei malleoli e la grazia del piede calzante le cioce o gli scarponcelli neri ornati da fibbie di argento. Sopra la bianca camicia che si rigonfia nelle maniche aggraziate, si allarga al polso sì che s’ intravveda la linea delle braccia e si apre ad un breve scollo al principio del seno, portano un alto busto ricoperto di stoffa vermiglia. I capelli, divisi a trecce, raccolgono in un’ampia crocchia rotonda che fermano su la nuca. Compie il costume una profusione d’oro raccolto In mille ornamenti : collane, orecchini, anelli, spille, amuleti, una vera profusione, che le rende simili a certe madonne votive rivestite dalla bontà dei fedeli, di metalli preziosi. Cominciano dalle buccole di stile barocco, enormi, lavorate con un’abbondanza di particolari ed un’esuberanza di disegno tali da ricordar alcune chiese del seicento contorcentisi in una folle danza di curve e di fregi. E si concatenano discendendo fin su gli omeri, veri rivoletti d’oro che la forza del lobo più non sostiene, tantoché si reggono per mezzo di un filo assicurato alla parte superiore dell’orecchio. Simulano detti ornamenti esagerati : incensieri, ostensori, cestelli e mille altre cose strane. 
Quasi ciò non bastasse a soddisfare la vanità delle belle figlie (perché sono belle per davvero e gaie e spigliate che fa piacere vederle), quasi ciò non bastasse, si cingono il collo di mostruose collane, nelle quali, data la maggiore ampiezza e la facilità maggiore di portarle, la fantasia degli artefici si sbizzarrisce nei più strambi motivi decorativi eh’ io m’abbia visto mai. 
Non solo le giovanette sono così, sfolgoranti d’oro, ma le vecchie e le bimbe. Ho notato creature macilenti, ricoperte di loia, quasi disfatte, recare in giro in una pietosa mostra, tutte le loro gioie; ho veduto bimbe appena decenni, inanellate già come giovani spose. 
Mi diceva un orefice di Monte Sant’Angelo, ch’ebbi compagno di viaggio da San Giovanni Rotondo a Manfredonia, che le donne di San Giovanni investono a volte in detti ornamenti ogni loro risparmio, recando a torno per tutta la giornata un capitaluccio di mille lire e più, 
Per tale particolarità, il vicoletto che percorro pare una viva mostra di oreficeria, nonché un lieto soggiorno dei maialetti che vi scorrazzano. Non mai come al Gargano ho avuto campo a studiare le grandi virtù domestiche del grazioso suino, che lassù è il vero amico dell’uomo, inquantochè compartecipa serenamente alla vita di lui, dorme al suo fianco, entra nella più dolce intimità della casa, e, un bel giorno, gli si sacrifica tutto pel suo pasto e per la sua fortuna. Suini e fanciulli sono buoni camerati, inseparabili amici ; fra un mucchio e I’ altro d’ immondizia stringono forti vincoli d’amore e ruzzolano insieme fra il sudiciume con un accordo tale di intenti da rimanerne commossi. 
Ho visto un marmocchio vestito da fraticello, tonsurato alla guisa dei francescani. 
Sbucò da una tana sotterranea, di corsa, seguito da una piccola creatura grigia che vidi appartenere al genere degli animaletti sopra desciittì. E tanto vero che l’abito non fa il monaco che, con non poco stupore, notai come animale e monello si dirigessero verso un mucchietto di concio e mentre l’ uno lo spostava col grifo, l’altro lo raccoglieva con le sue belle mani a grande edificazione di chi non apprezza la semplicità. 
In una via piena di balconcini e di fiori (in alto tanto tanto qualcosa di lindo si intravvede) noto molti vecchi seduti al sole su le scale esterne che conducono al piano superiore delle case ; i giovani sono tutti fuori, al lavoro ; dal fondo della via avanzano gravemente, solennemente due tipi buffi che, a tutta prima, credo sian mantenuti dal comune quale dolce ricordo della guardia nazionale. Indossano l’ identica divisa della compianta guardia, compreso il keppì che si prolunga innanzi quasi a spiare furtivamente il naso del suo signore. Detti individui mi sbirciano dall’alto al basso quasi fossi un malvivente riconosciuto ; una donna, più innanzi, si fa cura di avvertirmi che sono le guardie comunali. E vanno fra le immondizie come fra trofei di gloria che Iddio le magnifichi ! 
Quasi su ogni porta sono immagini sacre ; noto frequentissime, in piccole nicchie, le statuette di San Michele Arcangelo, In una casa di bella apparenza leggo la seguente iscrizione a grandi caratteri : — Crepi l’invidia ! — E una piccola salvaguardia contro la jettatura. 
Giungo al convento dei cappuccini, distante due chilometri, forse, da San Giovanni, che il crepuscolo arrossa i cieli. Il convento sorge in un breve pianoro prossimo alla cresta dei monti ; è tutto cinto di cipressi e di roveti. 
Il piazzale è deserto. Sotto due querce s’ innalza, sopra una base a tre gradi, un’antica croce tutta nera nell’ombra ; accesa a pena, lungo la sagoma, dalle lontane luminosità del mare, È un grande silenzio, una pace che invade e svade il core a raccoglimento ; vicino e lontano, tutto è deserto intorno, tutto riposa quasi converso alla mistica calma di questo eremitaggio. Due cavalli brucano al limite del piazzale, sotto le querce ; paiono grandi, scolpiti sui cieli. La scena ha una dolcezza di sogno. La chiesa è senza luci, su le piccole porte chiuse si aggrovigliano erbe e rovi, erbe e rovi selvaggi che l’antico spirito di Giano ha tratti su quella soglia dalla forza terrestre pel suo antico impero aspro e giocondo. Tutto è lindo e bianco ; non v’ è traccia del tempo ; un pallido candore è su queste vecchie mura. 
Picchio sommessamente alla porta sconnessa che conduce al convento, sommessamente, quantunque non oda un fremito, un sussurro, il lieve stormire dì due foglie ; ma, che so, qualcosa come un’ idealità stanca e soave, come il sospiro di mille dolori. 
Il pianto dell’ umanità che si inciela, è nel mio cuore ; qualcosa che sento in questo luogo lontano cinto di cipressi, dove sì volle la pace, dove si volle Iddio, Noi, figli della vertigine, sentiamo con tanta dolcezza i riposi claustrali! 
Nessuno risponde ; mi pare avvertire lo strisciar lieve di un passo, ma è un inganno dei sensi troppo intenti all’ intesa forse, poiché la porta non si dischiude. Rinnovo più volte il tentativo di richiamare l’attenzione di qualcuno, inutilmente. Ad un tratto odo due voci lontane, che risuonano come sotto un’ampia volta di tempio, due voci gravi che non mutano tono e si diffondono in tutto il silenzio e ne traggono echi, vibrazioni ; è tutta una solitudine remota che si risveglia a quel suono. Io ascolto e non vedo ; l’ immagine mi significa due vecchi monaci, gli ultimi nella grande casa muta del sogno e della pietà. 
Ad un tratto le due voci come son fiorite sfioriscono, pare ritornino su le sterminate vie dei secoli che furono. Il cielo si fa sempre più pallido come le violette dell’ ultimo marzo ; gli alberi più neri. La croce impera su l’ ultima luce del mare. 
Vorrei riposare in questa solitudine non so quanto tempo mai, senza pensare più, senza udire più se non qualche voce buona di vecchio, qualche voce che suada al riposo. 
Vi sono luoghi ed ore nei quali si raccoglie l’ infinita nostalgia che è nell’anima nostra turbolenta ; luoghi ed ore che aprono grandi porte su l’ improvviso silenzio dell’anima nostra e ci fanno dubitare. 
Come faccio per ripartire, un monello che appare in una balza, mi indica una porticina secondaria per la quale si può accedere al convento. Un vecchio mi serve di guida. Tutto è vuoto ed oscuro all’ interno ; ma tutto è all’ordine e conservato a maraviglia ; le anguste celle, i cortili, i peristili, i corridoi, il refettorio, la chiesa. I monaci non vi sono più ; l’ ultimo che v’era rimasto è morto da molti anni, ma tutto è là dentro per attestare della vita loro, tutto serba una traccia, un ricordo della semplice esistenza scomparsa. 
Il convento non risale ad antica data, fu fondato nel 1500 — è grandioso e semplice nelle sue linee — severo come le prime preci ispirate dal martirio. 

Nelle antiche celle si ricoverano ora i vecchi e le vecchie mendicanti ; aspettano laggiù l’ora fatale, rassegnati e sereni, l’ora che verrà con l’alta ombra dei cipressi a cercare l’anima errabonda. E pregano di minuto in minuto, d’attimo in attimo ; dal convento al cimitero è breve il tragitto. 

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Author: Geppe Inserra

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