Quando giunse in Capitanata per scrivere il suo libro sul Gargano (di cui ho parlato in una lettera meridiana precedente), Antonio Beltramelli non venne a Foggia. Il suo itinerario non lo prevedeva. La vide da lontano nel suo percorso di avvicinamento al promontorio, a bordo di una corriera che procedeva così lentamente da lasciare ampio spazio ad osservazioni e riflessioni.
Il grande scrittore di viaggi racconta così il Tavoliere, lasciandoci pagine molto vivide e suggestive, e profondamente stridenti con lo spirito della scoperta e valorizzazione dell’Italia artistica che era il fine della collana in cui il volume venne pubblicato.
Foggia sta sullo sfondo, ma è al tempo stesso una presenza forte.
L’intento è più quello del reporter che non del polemista che racconta per denunciare una situazione profonda di disumanità, dove il lavoro non nobilita né emancipa, ma è piuttosto una maledizione. Nondimeno le pagine di Beltramelli riecheggiano o più precisamente anticipano quelle altre, indimenticabili, che qualche decennio più tardi scrivere Tommaso Fiore, ne Il cafone all’inferno.
Di seguito il testo di Antonio Beltramelli, che apre Il Gargano. Leggetelo con attenzione: lo merita.
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I grani sono mietuti in gran parte; benché si aggirino ancora nella sterminata aridità del Tavoliere gruppi di mietitori, la grande opera è compiuta ; sotto la violenza canicolare gli strami gialli, risecchiti, rigidi nella loro morte, pongono un bagliore uguale che dilaga da orizzonte a orizzonte accecando. Ogni senso si smarrisce in questa terra di desolazione affocata, maledetta dal sole ; gli occhi socchiusi intravvedono a pena un tragico incendio, a traverso al quale, a grandi distanze, passano creature dal viso quasi ebete. L’aria non è corsa da un alito di brezza ; non si ode un suono; non un’ ombra scorre sotto tutto questo sole ; il lieve tremito di un’ombra che dia un momentaneo riposo.
Le tre brenne che trascinano faticosamente la corriera vanno travagando per la interminabile via che arde. Il cielo è opaco, bianchiccio, opprimente ; si stende, acceso da una strana incandescenza, a soffocare questa povera terra desolata.
Le lande, le nostre lande romagnole, sono ancora verdi di cespi di ginestre, di macchie di tamerici ; il mare, col quale confinano, dona loro la dolcezza del suo respiro. Allorché il sole passa il segno del leone, nelle ore più calde del meriggio, v’è chi le scorre senza sentire la morte alle terga, senza sentire il sangue tumultuare al capo in uno spasimo di agonia; esse hanno, benché aride e immense, qualche dolcezza di refrigerio e non affocano e non uccidono. Il Tavoliere delle Puglie è, nella grande estate, un piano di morte. Su lo squallore degli strami, che pare attendano una scintilla per alimentare l’incendio formidabile di cui il sole li nutre, l’occhio non può reggere aperto; è il regno del fuoco e dell’arsura. La terra sitibonda sprigiona un alito caldo; sono buffi di fiamme che salgono dal grembo della terra riarsa che il fremito di un ruscello non anima, non alimenta, non allevia. Non uno specchio,
benché minimo, d’acque : polvere, sole, aridità, altro non vede l’occhio. Tutt’al più alla domanda che sale alle labbra col desiderio veemente della sete, una mano stanca farà un cenno verso due punti dell’orizzonte, verso due punti lontani ed opposti dove è l’acqua e la febbre ; da un lato Lesina, dall’altro lo stagno salso. Fra questi due punti, a quando a quando, piccolissimi argini e qualche ponte segnalano il luogo ove, ai tempi delle pioggie torrenziali, il Candelaro conduce al mare le sue acque torbide e putride. Ora, durante la stagione estiva, nel suo letto asciutto dorme la febbre.
Verso ovest, in fondo all’abbagliante luminosità, riposa la città canicolare ; Foggia; la città che non conosce i lievi azzurri dell’ombra, che non sa il palpito primaverile, che mai fu recinta delle lievi ghirlande che aprile reca col suo sogno giocondo.
Foggia, che è come una vestale in mezzo al suo fuoco; nido di stanchezza temprato ai più alti rigori invernali e alle grandi violenze estive, sorto come un’oasi desiderata, benché non benefica, nel cuore de! Tavoliere, si vede a quando a quando come un punto più vivo nel sole, quasi più ardesse di ogni cosa intorno. Pochi alberi tisici sorgono qua e là sopra le sue case basse, simili a torri monche e il sole l’abbraccia, l’ inonda, la stringe tutta nella sua raggiera di fuoco. Non so, mi pare, vedendola da
lontano, ch’ella non debba aver voce, ch’ella debba essere rovente come una fucina, che tutto in lei debba giacere nell’inconscio torpore della canicola. Riposa fra le stoppie in questa desolata immensità e rompe la ininterrotta gamma dei gialli ponendo nell’aria l’accecante bianchezza delle calci di cui gran parte delle sue case è rivestita. L’occhio se ne distoglie infastidito, offeso. Conviene avere i sensi temprati a questo enorme stridere di colori e di luci per resistere imperturbati.
Innanzi, sul fondo, simile ad un immenso velario leggermente azzurro, si eleva il promontorio del Gargano. A levante, biancheggia sopra una cima dispoglia che scende a picco sul piano, un paesello che mi dicono essere Rignano, il belvedere delle Puglie. Di lassù si deve scoprire compiuta l’ immensità di questi piani.
La corriera (forse non fu mai più ironico il termine per questa vecchia carcassa che tre buscalfane trascinano) procede fra nembi di polvere ; ne siamo avvolti : fra l’afa e la polvere si respira a stento ; la gola è irritata e inaridita. I miei compagni di viaggio : una vecchia donna e un prete, sonnecchiano : le grosse mani, sudice, abbandonate sul grembo ; il capo sobbalzante ad ogni sobbalzo di questa scatola infernale che, ruzzolando, ci conduce chi sa verso quale nuovo martirio. Da tre ore si
cammina e ne avremo per più del doppio prima di giungere a S. Marco in Lamis.
Non protesto ; abbandonando la piccola stazione alla quale il diretto mi ha depositato, sapevo già dì andare a ritroso nei secoli e ciò dopo tutto non mi dispiaceva: i musei archeologici e i paesi abbandonati hanno sempre grandi attrattive per l’occhio dell’osservatore. Sobbarchiamoci adunque alla dura prova, tanto più che la gioia, la felicità, il bene non esistono se non per legge di contrasto.
Dormire è proprio delle creature che mi siedono a lato, è qualità, discutibile forse, ma appartenente anche al postiglione, il quale ha abbandonato le redini (sono tre, una per cavallo, con economia tutta propria a questi paesi) e sonnecchia bellamente al sole come una bestia soddisfatta ; ma non è qualità mia in questo frangente : unico fra i quattro, veglio e mi difendo da uno sciame di mosche che vuole assaporare in me una vivanda rara.
Il promontorio, che azzurreggia sempre più nei cieli bianchicci, non accenna ad avvicinarsi; andiamo con tale lentezza che si possono contare comodamente i ciottoli della strada.
Guardo, su la mia destra, un gruppo di mietitori che ha abbandonato il lavoro e si affanna, si scompone, grida non so bene ancora per quale causa. Le spigolatrici (sono vestite dì bianco in gran parte ed hanno piccole gonne corte e una pezzuola annodata con certa grazia su la nuca) si avvicinano correndo : una ne vedo che si porta le mani al volto e si dibatte ; le compagne le sono attorno, l’accerchiano, la rattengono. Il tumulto delle voci si avvicina. Vedo distaccarsi dal gruppo due
uomini, vengono verso la strada trascinando fra loro un giovane che grida, si contorce, tenta sfuggire
alla loro stretta. Poco dopo apprendo che è improvvisamente impazzito sotto la violenza solare. L’ho
innanzi agli occhi ancora, più non potrò dimenticarlo : è giovane, ha ventun anni appena ; è esile
come un giunco e bello. Ha i capelli irti come in uno spasimo di tutto ÌI corpo, gli occhi sbarrati innanzi a sé, attratti da non so quale visione di orrore ; tutto il volto congestionato, immobile in una contrazione di angoscia ; grida a denti stretti, grida reiteratamente, fra pause uguali, non so quali parole che non intendo ; pare lanci una maledizione terribile a quel suo Dio che l’ ha fatto umile e schiavo : pare bestemmi sua madre e la terra. Si divincola guizzando fra la poderosa stretta
dei compagni che Io conducono a pena : ora rattrappito a terra, ora balzando in un irrigidimento di tutta la persona. Lo seguo con penosa attenzione finche la polvere lo vela.
Solo il reverendo si è sporto un attimo a guardare ; ad una mia domanda risponde con un suo eloquio semi-pugliese di intesa difficile :
— Sono abruzzesi ; scendono quaggiù per mietere : è affare comune !
Pare un prìncipotto offeso. Lo guardo maravigliando.
Più innanzi mi Indica una donna che viene verso noi e piange forte.
— Chilla crisciu sia la soa mamma (quella crede sia sua madre) — dice — poi si arrovescia su una parvenza di guanciale, ripone le sucide mani sul grembo e riprende sonno.
Che sia affare comune me ne persuado perché ho occasione di imbattermi In altri disgraziati che la violenza del sole ha tolto di senno.
Questa maledetta aridità di morte vuole perennemente le sue vittime.
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Beltramelli? ma chi è?
Vorrei ricordare nella stessa collana "Foggia e la Capitanata", del 1910, scritto da Romolo Caggese di Ascoli Satriano. Qui è il risentimento per una terra amara, che prevale risperro al lirismo di Beltramelli.
Mi auguro che l'Antonio Matrella che ha esclamato "Beltramelli? ma chi è?" non sia l'omonimo di cui hai ben parlato tu, Geppe, nel tuo intervento l'altro giorno. Altrimenti – davvero – verrebbe da esclamare: "Matrella? ma chi è?"…
(Maurizio De Tullio)
E' da ricordare la sintetica descrizione di notevole forza espressiva nelle "Prose daunie" di Ungaretti : "Voglio dire che anche qui ha regno il sole autentico, il sole belva. Si sente dal polverone, fatti appena due passi fuori. Penso con nostalgia che dev’essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d’estate, quand’è la sua ora, e va, nel colmo della forza, tramutando il sasso nel guizzare di lacerti.
Non c’è un rigagnolo, non c’è un albero. La pianura s’apre come un mare. Vorrei qui vederlo nel suo sfogo immenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito.
È il mio sole, creatore di solitudine; e, in essa, i belati che di questi mesi vagano, ne rendono troppo serale l’infnito; incrinato appena dalla strada che porta al mare".