Quant’era bella Foggia la sera di domenica scorsa, all’Amgas, la Foggia raccolta ad ascoltare Gianni Pellegrini e la sua band che presentavano il nuovo album del cantautore foggiano. Quant’è bella questa Foggia di persone che riesce a sentirsi un cuore solo e un’anima sola, a commuoversi e a riconoscersi in in un’appartenenza remota, ma che poi scopri, proprio in occasioni come queste, profondamente radicata. Quant’è bella questa Foggia di belle persone, che ti ricorda che la bellezza di una città e della sua comunità non sta soltanto nelle strade, nelle piazze, nei quartieri, nei monumenti ma prima di tutto nella sua gente.
Non vi sembri un incipit fuori luogo. Credo che con Ferlizze, Gianni Pellegrini e Raffaele De Seneen (che ha collaborato alla stesura dei testi) si prefiggessero proprio quest’obiettivo: mettere in musica e parole l’identità più profonda di una città di cui spesso si dice che non ha radici e un passato condiviso.
Pellegrini ci riuscì già qualche anno fa, con Cento giornate foggiane, una splendida canzone dedicata ai bombardamenti. La celebrazione del settantesimo anniversario e il movimento culturale che attorno ad essa s’è sviluppato, erano ancora tutti di là da venire. Genialmente, Gianni individuò in quella tragedia il momento della rottura dell’identità foggiana, e la necessità di ricostruirne in qualche modo i legami profondi interrotti, che hanno poi rappresentato uno dei motivi portanti delle celebrazioni e del movimento.
Ma veniamo all’album e al concerto. Ferlizze è il seggiolino utilizzato dai terrazzani, che nelle loro abitazioni non potevano permettersi delle sedie vere e proprie, e ricorrevano a questo umile oggetto, utile anche da portare in giro. In un certo senso sono un simbolo di classe: Sime ferlizze, l’ate so segge (siamo ferlizzi, gli altri sono sedie), canta Gianni nella canzone che dà il titolo all’album, a sottolineare la subalternità dei terrazzano nelle gerarchie sociali cittadine.
Ma com’è che un classe sociale subalterna assurge a simbolo culturale della città, tanto più quando, come lo stesso Pellegrini ha sottolineato, l’identità terrazzana è un’altra cosa rispetto all’identità foggiana? La risposta è che i terrazzani sono il cuore di Foggia, e Foggia sente Borgo Croci come il suo cuore pulsante.
Perché? Azzardo una ipotesi. I foggiani sono profondamente cambiati nel corso dei secoli, più di quanto non avvenga quando la storia scorre normalmente. Terremoti, guerre, epidemie hanno scavato ferite profonde nella sua identità. Gli stessi bombardamenti hanno provocato, oltre che distruzione, una forte mescolanza culturale. La tragica estate del 1943 provocò la morte o l’emigrazione di migliaia di foggiani cui fece seguito un’impetuosa ondata di immigrazione dagli altri comuni.
I terrazzani sono sempre rimasti invece sempre fedeli a se stessi. Sempre lì. Sempre con i loro costumi, il loro dialetto diverso da quello foggiano. Ma è proprio per questo che l’identità più profonda e più genuina della città, va cercata là, in quell’impareggiabile esempio di urbanistica spontanea che è Borgo Croci. Ed è per questo che l’opera di Pellegrini e De Seneen è destinata essa stessa a diventare un monumento di quella cultura immateriale che a Foggia si sta dimostrando – la bella serata all’Amgas ne è un’evidente testimonianza – insospettabilmente viva.
L’operazione di affidare ad un album di canzoni una dichiarazione di amore e di identità è ambiziosa. Ma Pellegrini e De Seneen colgono nel segno. Terra appandanate, il brano che apre il cd, celebra questo incontro di identità, raccontando la nascita della città, attraverso i suoi simboli: l’Iconavetere, dal cui rinvenimento prodigioso il piccolo borgo cominciò a crescere, e le verdure selvatiche con cui la gente si sfamava, simbolo del lavoro dei terrazzani che seppero fare di necessità virtù traendo dal quel territorio acquitrinoso, terra appandanate (terra di pantani) il povero cibo quotidiano: lampasciulle, lampazze, arùchele e perazze. Senonché la Madonna, al cospetto di questa terra grarse e triste (arsa e triste) si ricorda che pur’essa è mamma / arrasse i sette vele (sposta i sette veli che avvolgono l’Iconavetere) e a vide che chiagne pe nuje.
La povertà e la miseria rappresentano il filo rosso dell’album. Da brividi, per l’emozione che suscita e per la sua intensità poetica, ‘A rote dove viene cantata la ruota degli esposti in cui venivano lasciati i figli quando era impossibile mantenerli, per evitare che morissero di fame. La mamma, costretta al gesto che nessuna mamma vorrebbe mai fare, abbandona il suo bambino sognando per lui un futuro diverso e migliore. Ije te tenesse, ma nen è cosa / ije so’ na spina…. tu sì na rosa.
Molto bella è anche Stizzicheje, tratta da una poesia di Amalia Rabaglietti.
L’album si chiude con L’aratrecille che ricorda un’antica usanza dei terrazzani, che collocavano sul letto dei moribondi un piccolo aratro. Aratrecille eje na mascije ca te face cagnà, aratrecille eje na bacchetta ca te face vulà.
La canzone si chiude col testamento spirituale del terrazzano, che non è soltanto un appello alla libertà, ma anche una dichiarazione d’amore forte verso un territorio, che per quanto difficile, è la sola ricchezza di futuro: E mo ve lasse e ve fazze ricche ricche, ve lasse n’acqua, n’acqua appandanate, nu bufe, nu schernuzze, na fine de jurnate, na jummenda e nu pellidre abbeverate, na tavele ve lasse, na tavele dijune pecché campe e sempre agghie campate senza padrune.
(E ora vi lascio e vi farò ricchissimi, vi lascio un’acqua, un’acqua di pantano, un rospo, una lucciola, una fine di giornata, una cavalla e un puledro dissetato, una tavola vi lascio, una tavola digiuna perché vivo e sono sempre vissuto senza padrone.)
I testi sono accompagnati e sorretti da una musica altrettanto intensa, che mescola generi diversi, dal pop al folk, dalla pizzica al pop, dando sonorità insolite e ricche di suggestioni a un dialetto, quale quello foggiano, che non è di suo particolarmente musicale.
Nell’applauditissimo concerto all’Amgas, Pellegrini è stato accompagnato con maestria dalla sua band, in grado di sorreggere arrangiamenti mai banali o scontati: la tenerissima Chiarastella Fatigato, flauto voce e controcanto, l’aggressiva Cristina Donofrio, fisarmonica, tastiere e voce, l’intenso Cesare Rizzi alla chitarra solista, l’arrembante Sergio Picucci al basso, i bravissimi Alfredo Ricciardi e Cristiano Nimo, alle percussioni.
Tantissimi applausi per un concerto del quale è stato protagonista anche il pubblico, che assieme a Gianni Pellegrini, a Raffaele De Seneen e ai musicisti della band hanno reso tangibile sul filo dell’emozione e della passione quella bella Foggia di cui dicevo all’inizio, immortalata da Michele Sepalone nel filmato qui sotto, la cui colonna sonora è composta dal primo e dall’ultimo brano dell’album.
Sentitelo, guardatelo, amatelo, condividetelo.
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Bellissimo concerto, all'auditorium dell'Amgas. Poesia in versi, amore melanconico e struggente verso un'etnia, quella dei terrazzani, che è solo un lontano ricordo. Bravissimi, tutti, e complimenti a Geppe Inserra, che ha saputo cogliere, nel suo articolo, l'essenza della "foggianità" di questo lavoro musicale che è una favola dolceamara.
Caro Geppe sono letteralmente emozionato dalle tue parole, ti ringrazio. Hai centrato in pieno, tra l'altro, un punto fondamentale: il mio disco vuole essere un monumento di parole e musica alla nostra città. I monumenti non sono solo di pietra, ne sono convinto: l'Italia è glorificata tanto dal Colosseo quanto dall'Aida o dalla Divina Commedia. Per questo nel caso di Ferlizze è stata importante la collaborazione della Fondazione Apulia Felix, presieduta dal professor Giuliano Volpe, e della Fondazionebancadelmonte Domenico Siniscalco Ceci; assieme anche alla sensibilità del Comune, che ha voluto organizzare l'evento, e alla cittadinanza attiva del Gadd – Gruppo Amici della domenica. Insomma di pregio o meno, bello o non bello che sia, è il risultato di tante energie che ho cercato di mettere insieme attorno a questo "parto" culturale della città, a quanto pare ben riuscito: non sempre a Foggia le cose vanno male… (Gianni Pellegrini)