In Professione Reporter, Michelangelo Antonio firma uno dei piano-sequenza più celebri della storia del cinema. La macchina mostra il giornalista-reporter David Locke nella sua camera d’albergo che si sdraia sul letto, accedendosi una sigaretta. Lentissima, la macchina da presa comincia a guardare altrove: i dettagli della camera, poi l’esterno, il mondo e i fatti che vi accadono. Dopo aver svelato tutto ciò che sta intorno all’eroe, l’inquadratura torna nella stanza per farci vedere Locke privo di vita, ucciso per essersi lasciato coinvolgere dai fatti, di cui era prima soltanto un imparziale osservatore.
Antonioni racconta magistralmente un ribaltamento di sguardo: la vita prima soltanto osservata che adesso diventa coscienza di sé. Dolorosa, fino alla morte.
Per il regista emiliano, è questa anche la funzione profonda e primigenia del cinema: guardare, senza soltanto osservare. Prendendo parte, a costo della sofferenza che procura il vedere ciò che non t’aspetti o che vuoi semplicemente ignorare. In ogni atto di coscienza, così come in ogni catarsi, c’è sempre un che di sofferenza.
Quegli otto minuti di purissimo cinema mi sono tornati istintivamente in mente guardando la mostra In/Visibili (da non perdere, fino a 5 febbraio al Museo Civico di Foggia) di Antonio Fortarezza, con il contributo artistico di Fausto Mesolella, Teatro dei Limoni, Antonello Cantiello, Angelo Zollo.
Il tema – scandito dalle fotografie, dalle installazioni e dai contributi video – è quello del manicomio, e non solo: perché prima e dietro la mostra (che è poi, come puntualizza la locandina, un “percorso della memoria, per immagini, suoni, parole”) c’è appunto il vedere le cose e come vederle.
Intervenendo durante l’inaugurazione, Antonio chiarisce subito che “quello che si vede è quello che non si sarebbe dovuto mai vedere”.
Le immagini che scorrono appese ai muri del museo e nel video sono quelle di un manicomio dismesso: non si vede mai figura umana, ma stupisce come invece si senta continuamente la presenza delle persone (come si vedano, con gli occhi dell’anima) che in quel luogo furono rinchiuse e spesso coercite, (giuro che non conoscere prima questo orrendo partecipi o passato, che suona in se stesso sinistro): materassi che recano il ricordo dei corpi che vi furono stesi, calzature buttate in un mucchio, muri incrostati. Immagini come sindoni.
La visione non può essere neutrale, occorre appunto un ribaltamento di sguardo: non si può non prender parte, guardare è nel tempo stesso comprendere. La mostra prima inquieta, e poi coinvolge. Antonio ha raggiunto il suo obiettivo.
“Queste immagini – aggiunge l’autore – vogliono essere una provocazione, un invito affinché cominciamo a pensare in modo diverso. Nel percorso, attraverso quegli spazi vuoti, della persona se ne intuisce il passaggio, l’impronta, il vissuto. Spazi e assenze che rievocano identità costrette e nascoste. Vuoti che a voler guardare oltre, per contrapposizione e attraverso oggetti e scorci, se ne intuiscono corpi, volti, gesti, solitudini, sofferenze, vite non-vissute.”
Il bello di Antonio sta appunto nella sua capacità di penetrare fino in fondo alle cose che rappresenta. Designer, fotografo e da un po’ cineasta, ama cimentarsi con i contesti in/visibili, e ha quasi completato un lungometraggio sul ghetto di Foggia, il villaggio in cui (non visti, rimossi, obnubilati alla coscienza collettiva) vivono decine e decine di lavoratori extracomunitari, spesso in una condizione prossima alla schiavitù.
“Il viaggio di Antonio Fortarezza nell’ex manicomio – ha detto presentando la mostra Katia Ricci, critica d’arte e docente di storia dell’arte – è un viaggio all’interno della condizione umana e all’interno di se stessi, delle proprie parure e della proprie sofferenze. Lo snodarsi dei fotogrammi, nello svelare frammenti di vite perdute, racconta un’iconografia del dolore e dell’abbandono, segna il percorso in un continuo confronto tra i corpi assente ma così vividamente presenti, e la sensibilità di noi che guardiamo.” È sintomatico come molte immagini virino quasi al bianco/nero: “è come se il colore e la vita si fossero ritirati.”
Ma la vita non muore mai, guarire si può e si deve, sembra voler dire l’autore in un paio di immagini molto suggestive: un ramo fiorito, una finestra che svelando i cielo, proietta lo spettatore in una dimensione di luce (è l’immagine che illustra il post).
Lo sguardo diventa così empatico. La visione diventa partecipazione.
L’iniziativa è promossa dalla Consulta per la Salute Mentale della Provincia di Foggia in occasione del convegno “Guarire si può., che si svolgerà domani 28 gennaio e dopodomani 29, nell’auditorium dell’Ordine dei Medici.
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… quei padiglioni dismessi non recuperano una umanità dismessa che continua a perpetrarsi nelle vite non-vissute di tanti emarginati. E' sempre bello leggerti Geppe.
I raccoglitori contenenti documenti (immagino) sanitari – in una delle foto della mostra- sono l'emblema di ciò che non è stato mai.
Abbandonati all'incuria del tempo, se non recuperati, saranno inevitabilmente distrutti: ed è tutto ciò che resta come testimonianza del passaggio in quelle strutture di tutte quelle vite sofferte e negate, e una volta distrutti quei documenti, non ci sarà più neanche la prova del loro passaggio: vite mai nate e mai vissute.Personalmente lo trovo sconvolgente e delittuoso nei loro confronti. Maria Fortarezza