Non ho particolare nostalgia verso il centralismo democratico (per i lettori più giovani: era il concetto organizzativo fondamentale degli antichi partiti comunisti), ma l’intensa stagione congressuale vissuta dal Pd pone più di un interrogativo sulla qualità della partecipazione e della democrazia all’interno del maggior partito della sinistra italiana. E paradossalmente fa rimpiangere quell’antico metodo di formazione delle classi dirigenti del Pci.
I congressi celebrati nell’era del centralismo democratico si svolgevano secondo un rituale preciso: appena terminata la relazione del segretario (di sezione, di federazione, del partito) si riuniva, in separata sede, il comitato elettorale che provvedeva a stilare la lista di quanti avrebbero dovuto fare parte dell’organismo da eleggere (direttivo di sezione, comitato federale, direzione nazionale e via dicendo). Il comitato elettorale era composto in modo da risultare più o meno rappresentativo delle diverse anime del partito (non c’erano correnti vere e proprie, ma modi diversi di pensare, questo sì). Si discuteva, di mediava, si mettevano a punto equilibri più o meno solidi, quindi la lista veniva ratificata dal congresso, dopo una discussione.
Nella stragrande maggioranza dei casi, veniva approvata così come era stata licenziata dal comitato elettorale, ma a volte succedeva che il dibattito congressuale portasse a qualche modifica, anche sostanziale. Qualcuno proposto dal comitato elettorale veniva bocciato dal congresso, e al suo posto veniva eletto qualcun altro.
Una volta – non ricordo bene in che posto e occasione, ma doveva trattarsi di un congresso della mitica sezione Gramsci a Foggia, nel quartiere popolare di Croci—Candelaro – il dibattito fu così intenso e vivace da indurre lo stesso comitato elettorale a chiedere che si votasse, nome per nome, a scrutinio segreto, il giorno dopo. E ci sembrò una rivoluzione.
Oggi la stagione congressuale si celebra a colpi di primarie e di elezione diretta dei segretari cittadini, provinciali, e di quello nazionale. Ma quante e quali possibilità ha l’elettore-iscritto di influire sulla composizione dei gruppi dirigenti del suo partito? Praticamente nessuna, perché il meccanismo di elezione delle diverse assemblee (di circolo, provinciali e nazionale) si fonda su liste bloccate. Chi vota per un certo candidato alla segreteria cittadina, provinciale o nazionale non può esprimere voti di preferenze né tantomeno proporre dirigenti al di fuori di quelle liste, com’era, almeno virtualmente, possibile quando vigeva il centralismo democratico. È costretto a votare, tout court, anche per i candidati alle rispettive assemblee, che vengono eletti nell’ordine in cui sono compresi nella lista, come nel vigente sistema elettorale, bocciato dalla corte costituzionale proprio nella parte in cui impedisce all’elettore di esprimere il proprio voto di preferenza.
Per questo non condivido l’enfasi con cui si inneggia alla democrazia e alla partecipazione ostentando i milioni di elettori di sinistra che prendono parte alle primarie. Quanti – come chi scrive – si sono ripetutamente recati alle urne in queste ultime settimane. sono stati mossi da un sincero desiderio di partecipazione e di democrazia. Ma non sono stati ripagati con la stessa moneta, da un meccanismo di designazione dei gruppi dirigenti degno del peggior porcellum.
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