Qualche tempo fa, all’inizio di ottobre, ho pubblicato su Lettere Meridiane un post su via Arpi, in cui sottolineavo la contraddizione tra il sogno di farne la strada della cultura e della conoscenza e l’amara attualità, fatta di frequenti atti vandalici e teppistici.
L’articolo suscitò diversi commenti, che pubblicai in un post successivo, ad eccezione di quello, come al solito particolarmente lucido, profondo ed articolato, di Enrico Ciccarelli, che oltre ad approfondire la questione con molta intelligenza, chiamava direttamente in causa il mio modo di leggere e interpretare la città, o più precisamente alcuni cambiamenti che sarebbero intervenuti nel mio modo di comprendere e di raccontare la città. Enrico mi tacciava di misoneismo (tendenza a rifiutare tutto ciò che è nuovo e generale sopravvalutazione del passato), e confesso che la sua (comunque affettuosa) accusa mi ha dato da pensare e da riflettere, per cercare una risposta.
Credo di averla trovata. Ne parlo nel prossimo post, a proposito di una vicenda che almeno in apparenza ha poco da spartire con quella di via Arpi. Per il momento, eccovi quanto ha scritto Enrico. Un bel pezzo su Foggia, le sue contraddizioni, il rapporto tra centro e periferia.
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Caro Geppe,
come in molti dei tuoi scritti più recenti avverto un fastidioso stridore fra l’abituale lucidità dei tuoi ragionamenti e delle tue riflessioni e il sottile veleno del misoneismo. La nostra è ormai un’età in cui ci si ritrova facilmente laudatores temporis acti, ma penso che una persona della tua intelligenza e cultura possa facilmente trovare gli anticorpi al morbo.
È verissimo che Foggia abbia un enorme bisogno di bellezza e di “emblemi unificanti”, come sapeva il mai abbastanza rimpianto Antonio Pellegrino; però non fingiamoci orfani di una grandezza che non c’è mai stata. Certo, siamo stati inclita sede imperiale, nonché seconda città del Regno di Napoli, al tempo della “Daunia felice”; ma dopo il ventennio d’oro del 1810/1830 (l’età di Oberty e di Rosati) la storia foggiana è stata storia di modernità senza progetto e di reddito senza sviluppo.
Via Arpi è via della cultura e (in parte) dell’intrattenimento grazie -essenzialmente- al Pic Urban, prima del quale tutta la zona della Testa di Cavallo, al di là delle poche e tuttora esistenti emergenze nobiliari e signorili, era caratterizzata da degrado assoluto e permanente. Chi storce il naso per l’installazione di Largo Civitella o per il discutibile trenino di piazza Mercato o il rifacimento di piazza Baldassarre, forse ha la vista intermittente, atteso che non vede o considera poco gli abituri malsani che tuttora ospitano famiglie foggiane, tralascia l’amianto dell’ex-cinema Italia, considera con placida indifferenza l’obbrobrio del palazzone addossato alla Chiesa dell’Addolorata e l’orribile palazzone che affaccia su piazza Federico Secondo, per tacere dell’abominio del “grattacielo”.
Le periferie foggiane, eccezion fatta per alcune follie del Peep e l’abitudine speculativa al consumo di suolo, non sono affatto degradate; per certi aspetti, grazie al “combinato disposto” della logica democristiana del comparto e dell’impulso al verde di Paolo Agostinacchio, hanno caratteristiche di vivibilità e gradevolezza superiori alla media meridionale. Ad essere gravemente degradato è proprio il centro; per sapere cos’era via Arpi basta fare adesso un giro nel quartiere coloniale o nel dedalo di viuzze fra la Chiesa delle Colonne e via Matteotti.
L’identità non è debole perché mancano i simboli: è debole per la fragilità o la precarietà di ciò che i simboli dovrebbero rappresentare. Perduti nel ricordo di un’immaginaria “grande Foggia” che aveva tutto, i cittadini della Terra Infelice vivono ogni novità come una minaccia, un’ulteriore prova della caduta. E questo allontana ancor più la costruzione di quella “classe generale” che in ogni comunità è minoranza imprescindibile. Per dirla con Franco Mercurio, continuiamo ad avere ceti dominanti anziché classi dirigenti; e i ceti dominanti non costruiscono né monumenti né identità.
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Caro Ciccarelli leggo sempre con rinnovato interesse i suoi interventi mirati e lucidi sulla nostra città. In merito alla citazione finale considerando che ho visto dirigenti che non sono neanche in grado di accendere un computer e scriversi una lettera da soli (meno male che ci sono gli impiegati) effettivamente è vero, noi non abbiamo una classe dirigente…ma per lo più attori che interpretano tale ruolo. Cordialmente
Alex