Social network, informazione, politica: come far tornare i conti

Pochi ma buoni, i commenti a Il medium non è il messaggio. Comincerei da quello – suggestivo perché viene da un non addetto ai lavori, e coinvolgente per le riflessioni che suscita – di Lea Ricci, che scrive sulla bacheca di un collega, Massimo Mazza, ormai decano del giornalismo foggiano, così come lo fu il padre, Maurizio: “Se i giornalisti la pensassero come Voi , non ci sarebbe tutto quel bailamme di pettegolezzi insulsi, ma solo costruttività tramite l’informazione reale , meglio precisare: quella vera”.
Lea ha ragione, e credo non ci voglia poi tanto ad esser giornalisti nel modo che intende lei. Per raccontare la realtà, la vita, bisogna saperle leggerle. Per dare un senso alla propria comunicazione bisogna mettersi in tensione verso gli altri (che sono poi altrettanti tasselli della realtà composita). Non si può comunicare autenticamente se, prima, non si impara ad ascoltare. Ed anche solo sentire non basta: occorre lasciarsi affascinare dall’ascolto, dall’altro, dagli altri, mettersi in gioco, essere disposti a cambiare.

Interviene sul post  anche il destinatario della lettera in esso contenuta, Massimo Lapenda: “Caro Geppe… grazie per le belle parole che mi hanno commosso e mi hanno riportato indietro nel tempo così rapidamente che quasi quasi mi veniva difficile tornare ai giorni d’oggi. Non voglio esorcizzare in negativo o positivo i social network ma esprimevo solo un mio pensiero sull’utilizzo di questi strumenti. Quando sei in un social network e cerchi di esportare un ragionamento politico sei sicuro di trovare sempre persone reali? E chi ti dice che la gran parte sono solo dei troyan (dei cavalli di troia o finti profili) nati solo per orientare in una direzione o nell’altra il pensiero politico del momento? In realtà questo è un pochino il problema che si è posto anche con le consultazioni grilline. Ma questo mio pensiero l’ho esternato svestendomi dai panni (lo so che non è possibile farlo) del giornalista. Per ultimo una piccola riflessione. Un tempo quando la politica si faceva nelle sezioni di partito, spesso, si sentiva dire ‘sono volate le sedie’. Ora se esporti la politica nei social network sentiremo dire ‘sono volati i tasti del pc’?”
Sullo scambio tra me e Massimo, interviene Enrico Ciccarelli, che svolge un’approfondita, qualificata riflessione proprio sul mestiere di giornalista.
“Trovo molto dolci e condivisibili le parole che si scambiano Geppe e Massimo, a ricordarci che il mestiere di giornalista, nella sua veste simbionte di attività individuale e lavoro di gruppo – scrive Enrico – , è parte di quella contraddittoria meraviglia che Prevert chiama “lo sforzo umano” (consiglio la lettura di quella meravigliosa poesia) [Se leggete fino in fondo, la pubblico più avanti, n.d.r.].
Nel merito non mi appassiona la discussione un po’ tradizionale fra apocalittici ed integrati. L’irruzione di ogni nuovo medium ha destato preoccupazioni in tutto simili, fin dal mito greco collegato alla nascita della scrittura, che secondo molti (Platone incluso, se non ricordo male) avrebbe segnato la scomparsa della mnemotecnica e la conseguente perdizione dell’umanità. Personalmente ritengo che il giornalismo sia una professione, non una tecnica, e che lo sia più che mai in una situazione nella quale tecnicalità apparentemente giornalistiche sono alla portata di tutti.
La televisione, specie commerciale, ha avuto da noi un impatto più devastante che altrove anche perché il suo arrivo è stato irragionevolmente ritardato, nel nome di una concezione pedagogica e sottilmente autoritaria del mezzo che ne ha enormemente potenziato il peso. Non so se sia la peggiore del mondo, e non credo che quella di Bernabei fosse la migliore; dico solo che secondo me il problema non è la tv, ma ciò che (non) le sta intorno. In nessun Paese al mondo i giornali danno alla tv una cassa di risonanza così ampia come in Italia. Ma il vero punto, che è a mio parere drammatico è l’inflazione delle notizie: il rumore comunicativo di fondo che crea una generale condizione di sordità, in cui domina incontrastata l’iperbole, l’architrave del linguaggio pubblicitario (non per caso). Finché continueremo a inseguire la visibilità anziché la notevolezza, la straordinarietà anziché l’importanza, fino a quando vorremo stupire piuttosto che informare, per il giornalismo non ci sarà futuro. Né sui social né altrove.”

Bravo, Enrico. Concordo soprattutto sul punto: l’insostenibile brusio di fondo che accompagna la ricerca della visibilità a tutti i costi porta all’enfatizzazione del nulla, e lo sa benissimo chi nel nostro mestiere – come me e te – ha bazzicato la comunicazione pubblica e gli uffici stampa, vedendo scorrere, ahimè senza ricambio, una generazione politica (quella, per intenderci di Michele Protano e Antonio Pellegrino) che badava alle cose piuttosto che alla vetrina.
Circa la televisione, non ho mai particolarmente amato la tv di Bernabei. Però è il caso di ricordare che la prima trasmissione di successo della Rai fu Non è mai troppo tardi, in cui la tv insegnava a leggere e a scrivere, fornendo strumenti di comprensione della realtà che la trascendevano. Oggi è l’esatto contrario: la televisione – come giustamente dici – è del tutto autoreferenziale.
A Prevert si ispira anche il sempre attento Ninì Russo, che così commenta: “Fate entrare il cane coperto di fango… / Si può lavare il cane, si può lavare il fango… / Ma quelli che non amano né il cane né il fango… / Quelli non si possono lavare. (Jacques Prevert)
Ma si, – aggiunge Russo – lasciamo entrare anche chi lascia l’auto in seconda fila. Che senso avrebbe una comunicazione tesa a costruire un mondo e tirarvi intorno un cerchio, al di fuori del quale non c’è salvezza?”

Ovvio che vanno fatti entrare anche quelli che posteggiano in seconda fila, con la speranza che, comunicando comunicando, diventino un tanti più civili.
Ed ecco, per finire, così come promesso, la poesia citata da Enrico Ciccarelli.

Lo sforzo umano 
di Jacques Prévert
Lo sforzo umano
non è quel bel giovane sorridente
ritto sulla sua gamba di gesso
o di pietra
e che mostra grazie ai puerili artifici dello scultore
la stupida illusione
della gioia della danza e del giubilo
evocante con l’altra gamba in aria
la dolcezza del ritorno a casa
No
Lo sforzo umano non porta un fanciullo sulla spalla destra
un altro sulla testa
e un terzo sulla spalla sinistra
con gli attrezzi a tracolla
e la giovane moglie felice aggrappata al suo braccio
Lo sforzo umano porta un cinto erniario
e le cicatrici delle lotte
intraprese dalla classe operaia
contro un mondo assurdo e senza leggi
Lo sforzo umano non possiede una vera casa
esso ha l’odore del proprio lavoro
ed è intaccato ai polmoni
il suo salario è magro
e così i suoi figli
lavora come un negro
e il negro lavora come lui
Lo sforzo umano non ha il savoir-vivre
Lo sforzo umano non ha l’età della ragione
lo sforzo umano ha l’età delle caserme
l’età dei bagni penali e delle prigioni
l’età delle chiese e delle officine
l’età dei cannoni
e lui che ha piantato dappertutto i vigneti
e accordato tutti i violini
si nutre di cattivi sogni
si ubriaca con il cattivo vino della rassegnazione
e come un grande scoiattolo ebbro
vorticosamente gira senza posa
in un universo ostile
polveroso e dal soffitto basso
e forgia senza fermarsi la catena
la terrificante catena in cui tutto s’incatena
la miseria il profitto il lavoro la carneficina
la tristezza la sventura l’insonnia la noia
la terrificante catena d’oro
di carbone di ferro e d’acciaio
di scoria e polvere di ferro
passata intorno al collo
di un mondo abbandonato
la miserabile catena
sulla quale vengono ad aggrapparsi
i ciondoli divini
le reliquie sacre
le croci al merito le croci uncinate
le scimmiette portafortuna
le medaglie dei vecchi servitori
i ninnoli della sfortuna
e il gran pezzo da museo
il gran ritratto equestre
il gran ritratto in piedi
il gran ritratto di faccia di profilo su un sol piede
il gran ritratto dorato
il gran ritratto del grande indovino
il gran ritratto del grande imperatore
il gran ritratto del grande pensatore
del gran camaleonte
del grande moralizzatore
del dignitoso e triste buffone
la testa del grande scocciatore
la testa dell’aggressivo pacificatore
la testa da sbirro del grande liberatore
la testa di Adolf Hitler
la testa del signor Thiers
la testa del dittatore
la testa del fucilatore
di non importa qual paese
di non importa qual colore
la testa odiosa
la testa disgraziata
la faccia da schiaffi
la faccia da massacrare
la faccia della paura.

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Author: Geppe Inserra

4 thoughts on “Social network, informazione, politica: come far tornare i conti

  1. Quello che vorrei chiedere a un giornalista è uno sforzo critico ed estetico per oltrepassare la letteratura e rendere l'atto letterario più umano, capace di contenere il sogno di un uomo. Più della notizia, che come la verità vive sempre e solo in un contesto, mi trasmetta il suo sogno, permettendomi di riandare ai miei … E' una gioia leggervi che acuisce il rammarico di una promozione umana così fioca dalle nostre parti, nonostante voi.

  2. Caro Russo, la ringrazio non solo per gli immeritati complimenti, ma soprattutto per i versi di Prevert, come ringrazio Geppe per avere opportunamente postato quell'altra stupenda lirica. Condividere la bellezza (e le parole dei poeti ne sono un esempio possente) è probabilmente l'estrema difesa contro il cieco e irrequieto furore che si va impossessando delle nostre comunità (indifferenti alla bellezza come alla libertà e alla pace perché immemori di quanto questi beni siano facili a perdersi). Per ricambiare, regalo a lei e agli altri casuali lettori di questo link, dei versi di Anna Achmatova, grandissima poetessa russa del Novecento. In essi spiegava perché, pur essendo perseguitata da Stalin e dal potere sovietico, non aveva mai lasciato il suo Paese: "No, non sotto un cielo straniero/ al riparo di ali straniere./ Io ero allora con il mio popolo/ là dove il mio popolo per sventura era". Ho sempre pensato che questi versi scintillanti e ultimativi spieghino egregiamente che cos'è il giornalismo e perché chi lo professa bene come Geppe o male come me sia costretto a non "fuggire" dal contesto, anche con il più nobile degli scopi (contenere un sogno è secondo me impresa temeraria, in ogni caso affidata a strumenti infinitamente piccoli, ben lontani dal clangore dei media). Perché non possiamo ripararci sotto le ali di un cielo straniero, per quanto accoglienti: il nostro compito, la nostra scelta è di essere con il nostro popolo, con la comunità a cui apparteniamo e di cui siamo al servizio. Essere con il nostro popolo soprattutto nelle sue miserie e nelle sue sventure, più laicamente nelle cose che non vanno e che non funzionano. Perché, come dice un'altra poesia-manifesto adattabilissima al nostro mestiere, "I limoni" di Eugenio Montale, si tratta di scoprire "Il punto morto del mondo/ l'anello che non tiene/ il filo da disbrogliare/ che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità". Devo dire che a mio parere è questa ricerca la materia di cui son fatti i sogni. Saluti.

  3. In Piemonte, che è una grande regione in tutti i sensi (eviterei la polemica Savoia/Borbone), si pubblicano solo tre quotidiani, due dei quali sono 'La Stampa' e 'Tuttosport'.In Campania se ne editano undici che, messi insieme, vendono circa la metà della sola 'Stampa' di Torino! In Puglia se ne pubblicano dieci che insieme vendono un terzo della citata 'Stampa'!! Questo per dire cosa? Che ci sono due Italie certamente, ma che in àmbito massmediatico non sono affatto specchio del territorio. In Piemonte (da molto prima che esplodessero le nuove tecnologie informatiche e, poi, internet) ci sono invece decine di piccoli-grandi settimanali e, soprattutto, diversi bi e tri-settimanali che vendono moltissimo. Quando vado a Torino, da parenti, li divoro. Ogni pagina è davvero l'interfaccia del mondo (locale, provinciale, regionale). E quando leggo una notizia ne percepisco la profondità, la dimensione, il battito. Quelle pagine sono ancora la prova che il giornalista esiste, al di là dei vantaggi di PC, tablet, telefonini e internet. Non vi troverete grandi inchieste stile "Report" ma sentirete il polso di un territorio che sa parlare, discutere, promuovere, cercare e preservare tracce della propria memoria e quei giornali sono una parte di quel territorio.
    Al confronto le nostre testate sono la dimostrazione vivente di spazi riempiti quasi per dovere. Non vibrano, non colgo il piacere del lavoro giornalistico (al netto dei problemi contingenti di cui so).
    La GdM di Capitanata di giovedì 22 agosto scorso ha pubblicato – tra servizi, notizie, corrispondenze e brevi di cronaca – 57 informazioni, su 17 pagine disponibili: la media è di 3,3 notizie per pagina! Ho calcolato il periodo (poca attività politico-amministrativa e meno giornalisti al lavoro) ma non cambia in periodi 'normali': aumentano le notizie ma anche le pagine!
    Insomma: vorrei meno giornalisti pantafolai, meno comunicati copia-e-incolla, meno pressapochismo (in una pagina, sempre del 22 agosto della GdM, a proposito dei 70 anni dalle bombe su Foggia, sono state pubblicate 4 foto relative alla nostra città distrutta dalle bombe. Delle 4 foto ben due non riguardavano affatto Foggia! Si trattava di altre città, una certamente tedesca che avevo visionato su un sito internet!).
    Vorrei più passione, più autonomia da Bari (non si può fare un fax alla redazione di Foggia ma occorre trasmetterli a un numero della redazione di Bari!), più autocorrezione dei testi (in Abruzzo, per ferie, ho comprato per sei giorni "Il Centro" edizione di Teramo e non vi ho trovato un solo errore di italiano e di digitazione che fosse! E se vogliamo dirla tutta, la cara, vecchia, insostituibile "Gazzetta" perde inesorabilmente copie da oltre 15 anni a vantaggio non certo dei nostri "Quotidiano di Foggia" e "L'Attacco" ma di giornali come "Corriere del Mezzogiorno/Puglia" e "Repubblica/Bari".
    Si dice che la concorrenza dovrebbe migliorare il prodotto ma quando rivedo le pagine della "Gazzetta" di Capitanata, in bianco e nero, nel formato lenzuolo, anche solo di 10 o 15 anni fa, precedente allo sbarco in Puglia delle due corazzate nazionali, beh ho la sensazione che… era meglio quando stavamo peggio.
    Qualcosa vorrà pur dire.
    (Maurizio De Tullio)

  4. Belle le Vs riflessioni molto profonde e condivisibili.Io penso,molto banalmente, che migliorando la qualita' del giornalismo si renda un grosso servigio all'intera comunita' , migliorandola. Salvatore Valerio

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