Ho letto con grande interesse le riflessioni di Giuseppe Donatacci sulle celebrazioni del settantesimo anniversario dei bombardamenti, pubblicato in un post nel gruppo facebook Capitanata Mia e, con il consenso dell’autore, mi piace offrirle agli amici di Lettere Meridiane che già in altre occasioni hanno manifestato particolare attenzione al tema della memoria e dell’identità.
Giuseppe Donatacci è uno dei ricercatori di storia e tradizione locale che maggiormente apprezzo: per la sua serietà, ma anche per una certa creatività che pervade i suoi lavori. È tra gli animatori e docenti dell’Università Crocese, benemerita istituzione cittadina che meriterebbe un monumento perché da anni porta avanti la sua missione, senza particolari sostegni da parte degli enti pubblici se non credo, per la sede, messa a disposizione dalla Prima Circoscrizione. (E si tratta di un raro ma splendido esempio di come il decentramento amministrativo possa anche diventare agente culturale nelle periferie urbane).
È autore di diversi saggi che riguardano la cultura immateriale della città. Tra quelli pubblicati on line, vi segnalo questo delizioso vocabolario crocese, reperibile nel sito curato da Tonio Sereno.
Il rigore scientifico e la capacità intuitiva di Donatacci si ritrovano tutte nell’articolo che segue: l’autore trae le mosse da alcune considerazioni svolte da Enrico Ciccarelli su questo blog per ipotizzare che taluni problemi che riguardano sia la memoria storica della città, sia la sua identità come città siano state ostacolate dalla particolare conformazione dell’abitato, suddiviso in borgate, già prima della guerra. I bombardamenti hanno fatto il resto, distruggendo tanta memoria collettiva, e nello stesso tempo importanti, con la forte immigrazione del dopoguerra, tanta nuova memoria. È una tesi originale ed intrigante, che volentieri pongo all’attenzione degli amici di Lettere Meridiane, nella speranza che anche su questo possa aprirsi un confronto.
di Giuseppe Donatacci
Con enorme piacere si registra a Foggia un interesse crescente per la storia locale. Un importante input lo hanno dato le celebrazioni del 70° anniversario dei bombardamenti che, attraverso numerose iniziative che hanno coinvolto trasversalmente ogni categoria sociale e ogni fascia d’età, (dalle scolaresche ai reduci di guerra), hanno avuto il merito di risvegliare l’orgoglio identitario che tutti auspichiamo si trasformi in riscatto sociale e faccia risalire la nostra città dagli ultimi posti delle graduatorie nazionali in fatto di vivibilità. La strada da fare è ancora molto lunga e se si considera che sono passati ben 70 anni per elaborare un lutto collettivo che era stato socialmente rimosso, possiamo ben capire i motivi della decadenza in cui versa la nostra città.
Ma per quale motivo i nostri concittadini hanno rimosso una tragedia così immane? Perché questo disinteressamento per le vicende belliche che ancora oggi ci fa dubitare sulla vera entità del numero di vittime? Perché i foggiani si sono presentati divisi anche dinnanzi ad un riconoscimento nazionale quale l’insignazione della medaglia al valor militare da parte del Presidente della Repubblica? Per rispondere a queste domande non possiamo certamente prescindere da argomentazioni etiche, ma ritengo che le ragioni più recondite risiedano nel carattere del foggiano medio che più volte sociologi e filosofi hanno tentato di tracciare. Potrei apporre a questo punto la citazione di Vendola che per descrivere un modo di fare tutto foggiano ha dovuto coniare il termine “foggianesimo”, o della prof. Fanizza che così descrive in un suo libro il carattere del foggiano: “Invero l’atteggiamento del foggiano medio è contraddistinto da due vettori: diffidenza e scetticismo riguardo alle potenzialità locali, tanto inspiegabili e pregiudizievoli che se ne riesce a comprendere la trama o a trarne una fenomenologia solo ricorrendo ad un’antropologia spicciola; inerte ma stizzosa competitività per cui per gli abitanti di Foggia un pareggio equivale ad una vittoria, con il risultato che ci si compiace dei fallimenti altrui. Anche perché in questo modo vecchie convinzioni e antiche teorie si radicano sempre più, continuando a rappresentare riferimenti solidi e rassicuranti, che in ragione della loro sostanziale indisponibilità ad essere messi in discussione, diventano inconfutabili e soprattutto opponibili, quasi alla stregua di tabù, a coloro che, nella loro qualità di forestieri, per integrarsi e conoscere la città, cercano di stabilire un confronto, facendo riferimento ad altri punti di vista culturali ”*.
Anche alcuni scrittori locali si sono cimentati nel descrivere l’atteggiamento del foggiano, non discostandosi molto dalle impressioni avute dai più blasonati colleghi baresi. Gioacchino Rosa Rosa, con molta ironia, non perde occasione per rimarcare in ogni suo libro i vezzi e i vizi dei foggiani, individuando nei suoi concittadini le caratteristiche del “non vuol fare, non sa fare e soprattutto non vuol far fare”. Ultimamente anche un serio ed acuto giornalista come Enrico Ciccarelli, rimproverando l’atteggiamento pessimistico e superficiale dei foggiani, si è cimentato in ben due neologismi, “ altrovismo e benaltrismo” spiegandoli in questo modo: L’altrovismo è la costante evocazione di un altrove, di un immaginario luogo alieno dove tutto è meglio, la classe dirigente è competente, la prosperità si tocca con mano ed ogni cosa funziona ad un diverso livello.
Nell’altrovismo, tipico delle piccole realtà di provincia, il luogo di nascita o residenza, in questo caso Foggia, diventa il concentrato di tutti i possibili mali, l’inferno dello spirito e del corpo. la soffocante prigione dalla quale si cerca di evadere (e questo atteggiamento non è contraddetto, ed anzi rafforzato dall’accostamento a questo anatema di un’altrettanto immaginaria eccellenza più o meno misconosciuta o perduta). Il benaltrismo è il rifiuto programmatico di qualunque approccio di merito ai problemi e il loro inserimento in un “quadro generale mitico” in base al quale “il problema è ben altro”. Rileva poco se l’argomento-feticcio sia un’improbabile fabbrica di nuovi assetti istituzionali e territoriali, l’apocalittica eradicazione dell’intera classe dirigente, il vagheggiamento di ucronie come la restaurazione neoborbonica. Il dato unificante è il meccanismo-rifugio.”
Pur rispettando le loro idee e pur ammettendo che la loro opinione sul carattere del foggiano medio si pone ad una distanza tale da essere considerata imparziale, mi permetto di dare una interpretazione sull’origine di questo atteggiamento per nulla costruttivo che, secondo me, origina proprio dagli eventi bellici che hanno segnato lo sviluppo della nostra città.
Già Foggia nel periodo antecedente la Guerra era caratterizzata da una forte frammentazione logistica. La città non si sviluppava in modo omogeneo ma si estendeva in quartieri o meglio in borghi. Ogni borgo aveva un’organizzazione sociale a se stante e da ricerche condotte da A. Capozzi sui borghi foggiani * si evince che in alcuni casi era quasi considerato tabù l’unione matrimoniale al di fuori dal clan, così che un abitante di Borgo Croci difficilmente si sposava con una donna di Borgo Caprari. La città era così suddivisa: Borgo Croci, Borgo Caprari, Largo Rignano, Borgo Scopari, Borgo Conciatori e Piano delle fosse.
Lo sviluppo delle borgate avvenne all’indomani del devastante terremoto del 1731, sviluppando la città fuori dalle mura. Allo sviluppo della città in compartimenti stagno contribuì non poco la Chiesa che affidò alle Congregazioni il compito di riunire intorno a se il popolo alla preghiera e all’operato. Le Congregazioni si formano ancora una volta intorno allo status del confratello cosicché si stringe ancora più il legame tra territorio e stato sociale. In questa fase di sviluppo della città, le aggregazioni si facevano intorno ai mestieri, cosicché tutti i muratori facevano capo alla Chiesa del Carmine vecchio, così come tutti i fabbri, maniscalchi e coloro i quali costruivano finimenti per i cavalli si stringevano intorno alla Chiesa di Sant’Eligio, e così via.
Una poco lungimirante Pastorale ha fomentato una “concorrenza” tra le Congregazioni che si manifestava, e si manifesta ancora oggi, attraverso forme che il cittadino non comprende appieno ma che fanno status per i confratelli. Per esempio durante le Processioni in onore della Madonna Iconavetere, più la congregazione è vicina al Sacro Tavolo, più è considerata “importante” perché più antica.
All’indomani dei bombardamenti che massacrarono Foggia, i suoi abitanti superstiti si allontanarono trovando ospitalità nei paesi della Provincia. Questa ospitalità fu ampiamente ricambiata durante gli anni della ricostruzione quando proprio dalla Provincia scese un cospicuo numero di abitanti i quali contribuirono non poco al rilancio delle attività produttive della città. Durante la ricostruzione molti luoghi di culto in cui si perpetravano importanti tradizioni, sono stati demoliti. Pensiamo ad esempio alla chiesa di Sant’Antonio abate davanti alla quale il 13 gennaio si officiava la messa per gli animali, oppure alla chiesa di Sant’Angelo, davanti alla quale il giorno di Santa Lucia si faceva il falò e si cucinavano le fave. Tutto questo, nel frattempo, ha impedito di rafforzare l’identità dei cittadini foggiani. Succedeva che gli abitanti foggiani provenienti dalla provincia, non trovando un tessuto sociale coeso, si sentivano sempre ospiti, facendo riferimento, per costumi e tradizioni, ai loro paesi di origine. Inoltre gli abitanti della provincia residenti a Foggia stringevano relazioni solidali tra loro, aiutandosi nell’ascesa sociale. Si spiega in questo modo la freddezza di alcuni amministratori locali nel tutelare i luoghi che rappresentano la storia di Foggia. In questo modo è stato possibile la soppressione dell’arco di San Michele, oppure l’abbattimento della palma in piazza del lago, solo per citarne alcuni.
Questo senso di appartenenza che stenta a decollare in una città come Foggia, viene messo in dubbio finanche dalla interpretazione popolare della scelta di ergere a Protettori della città San Guglielmo e Pellegrino. Secondo il pregiudizio popolare, i Santi Protettori foggiani “sono amanti dei forestieri” perché forestieri anch’essi.
Giuseppe Donatacci
• Il vuoto al centro- città politica comunicazione- Fiammetta Fanizza –Cacucci editore BA 2011 pag.98
• Foggia, voci dai Borghi. – Angelo Capozzi- crsec fg/32- 2004
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