Non mi aspettavo che lo scambio epistolare tra me e Massimo Lapenda producesse una riflessione così sentita e partecipata, su un argomento – il senso della professione del giornalista nell’era del social network – tutto sommato piuttosto specialistico. Se questo accade, è il segno che c’è un’attenzione diversa che forse, a sua volta, tradisce un diverso bisogno di comunicazione. Se vogliamo, la riscoperta della dimensione circolare della comunicazione come scambio e come reciproco arricchimento, propiziata dall’avvento del social network, pur in tutti i limiti del nuovo medium.
Nella mia attività, mi sono sempre posto il problema di come il mestiere di informare possa trasformarsi in mestiere di comunicare. Non ho la ricetta bell’e pronta in tasca, ma più volte l’ho cercata. Una delle esperienze più importanti, anche dal punto di vista emotivo, è stata senz’altro quella che ho condotto all’Università della Terza Età di Foggia, quando non era ancora stata istituzionalizzata e non era passata ancora alla Provincia.
Per dieci anni ho tenuto la cattedra di giornalismo e comunicazione di massa, assieme al collega Duilio Paiano. Allora a dirigere l’Ute era l’indimenticabile Carmine Gargiulo, sempre aperto ad ogni iniziativa che potesse migliorare il rapporto tra l’istituzione ed il territorio. Fu così che nacque l’idea di pubblicare, alla fine dell’anno accademico, un giornale del corso, iniziativa che racchiudeva un obiettivo intrigante. Il corso era molto aperto e problematico, nel senso che accentuava l’importanza della comunicazione (circolare) rispetto alla informazione (unidirezionale). Come fare, dunque, il giornale che stimolasse processi di comunicazione, in qualche misura rinunciando alle vecchie regole del giornalismo?
Offro agli amici di Lettere Meridiane l’editoriale che scrissi per l’occasione e che, sovvertendo ogni regola in materia, venne pubblicato in ultima e non come si usa, in prima pagina.
bah, non so nemmeno da che parte cominciare per concludere questo giornale. V’ho pur detto durante gli incontri del corso delle mie crescenti difficoltà nel ricercare e praticare accettabili “attacchi” ai miei pezzi; v’ho detto della strana “solitudine da foglio bianco” che da un po’ m’assale e mi assilla ; v’ho detto delle certezze che stanno progressivamente venendo meno: sui ferri del mestiere, sui discorsi, sulle parole.
Ve l’ho detto, ma ciò non é bastato ad esorcizzare la sindrome sottile dell’attacco nemmeno in questa occasione.
Mi chiedo: ma sarà poi necessario che ogni pezzo debba avere il suo attacco, il suo corpo, la sua “chiusa”? Sarà poi necessario che dobbiamo farci ingabbiare dalla consequenzialità del discorso, dovendo oltretutto descrivere, raccontare, interpretare una realtà che non é più consequenziale né coerente?
Eh già… di tutto questo abbiamo parlato nel nostro corso, capovolgendo un po’ la consolidata tradizione di sette anni. Non ho più voluto spiegarvi l’involucro: le gabbie (dio, che parola! e quanto illuminanti su questi giornali ingessati, sempre uguali a se stessi…), e poi le colonne, i titoli, gli occhielli, le aperture e le chiusure.
Ho voluto dirvi della mia crisi di “professionista della parola”, della mia urgenza di cercare altre modalità di comunicare. E ho provato prima di tutto a comunicare con voi: a vedere se, comunicando, cambiavo me stesso e cercavo di cambiarvi. Sono ormai già due volte che ci incontriamo “al di fuori dell’orario scolastico”, come si usa tra docenti ed allievi accomunati da un progetto forte.
Sono cambiato dopo questo corso. Siamo cambiati. E questo giornale è un po’ la cifra di questo processo ancora in divenire. La nostra scommessa era soprattutto cercare di capire la realtà: al di fuori di ogni schema e di ogni gabbia. Ci siamo detti che per farlo, noi che non siamo (ancora?) nemmeno una redazione dovevamo diventare qualcosa che somigliasse a un organismo nervoso: qualcosa che fosse cioè in grado di raccogliere gli stimoli della realtà che ci sta attorno, che interpretandoli li elaborasse, restituendoli poi alla realtà in termini di “risposta” . Un organismo nervoso in grado di interferire con la realtà, cambiandola e facendosi cambiare, e arricchendosi di volta in volta di esperienze, emozioni, sensazioni.
Ci siamo riusciti? Credo di sì… credo di sì se ci riesce in fondo un po’ difficile dirci arrivederci a settembre… se senza difficoltà ho potuto rinunciare al tradizionale ed ufficiale editoriale d’apertura del direttore per collocarmi all’ultima pagina… se dopotutto questo giornale è uscito: discusso tra di noi, ma alla fine progettato e realizzato interamente da voi.
Dovrei darvi un “10”. Ma aborrisco i voti: mi sanno anche quelli di classifiche e di prigioni.
Preferisco un semplice grazie. Per avervi conosciuto, per essere stato bene assieme a voi, per essere voi riusciti a farmi venire meno qualche altra certezza ma a regalarmi anche qualche altra speranza.
Geppe Inserra
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