“Il dovere di uno scrittore non è di mettersi al servizio di quelli che fanno la storia, ma di aiutare quelli che la subiscono.” Quando penso a Salvatore Ciccone, mi torna inevitabilmente in mente quanto disse Albert Camus ritirando il Premio Nobel a proposito dei “difficili doveri” dello scrittore.
Salvatore Ciccone di questi doveri si è fatto carico fino in fondo: rigo per rigo, cartella per cartella, articolo per articolo, saggio per saggio.
In una terra come la Capitanata che non ha mai fatto la storia, ma piuttosto l’ha subita, Salvatore ha sempre cercato di indicare, scavando nella storia, il bandolo di una matassa spesso inestricabile. Com’è che un territorio così rigoglioso, importante e pieno di risorse quale la Daunia-Puglia non è riuscito ad essere mai, o lo ha fatto assai raramente, protagonista della propria storia? La risposta non va cercata in quanti, dai Romani a ai Longobardi, dagli Svevi agli eserciti alleati hanno fatto la storia, ma piuttosto in quanti l’hanno subita: i vinti di ogni epoca.
Salvatore Ciccone ci ha lasciati da qualche anno, ma la sua assenza è qualcosa di ancora tangibile: come una voragine del pensiero, un buco nero nell’autocoscienza di una terra che aveva bisogno di cantori e narratori come Ciccone per mettersi davanti allo specchio e guardarsi, per scoprirsi diversa.
Grande giornalista (ha collaborato con il Corriere della Sera), saggista, critico d’arte, spirito libertario e squisitamente umanista, capace di una prosa densa, da leggere sillaba dopo sillaba, Salvatore ha il dono dell’analisi acutissima che sfocia inevitabilmente nell’utopia, come si addice agli spiriti profetici. La sua vita professionale si è legata al Consorzio per la Bonifica di Capitanata di cui è stato capoufficio stampa e direttore della rivista Bonifica. Le nostre strade professionali si sono incrociate spessissimo: l’incrocio più bello è stata nella redazione del mensile Pagine che per diversi mesi ha accompagnato a Foggia l’esperienza del cinema Falso Movimento e dell’associazione Aiace, presieduta da Vittorio Affatato. Io dirigevo il periodico, lui era “garante” dei lettori: affinché tutte le voci potessero aver spazio, essere prese in considerazione, produrre opinione.
Da tempo pensavo di rendergli omaggio, su Lettere Meridiane. In un post di qualche settimana fa, ho fatto cenno alla sua (attualissima) utopia della città intercomunale dell’Appennino Dauno.
Ma come dar conto di un pensiero enciclopedico come il suo? Alla fine ho trovato lo scritto che segue, che chiude Saluti da Foggia, una snella ma assai densa Guida della Città, pubblicata dalla Provincia di Foggia, durante la presidenza di Antonio Pellegrino, e dal Cenacolo Culturale “Contardo Ferrini”, a cura di Savino Russo e Gaetano Cristino.
Salvatore Ciccone (che era originario di Napoli) parla di Foggia, la sua città di adozione, affrontando un tema nevralgico quale la memoria, ponte tra il problematico passato della città e l’altrettanto problematico futuro. Il punto di vista è proprio quello indicato da Camus: il punto di vista di una terra che ha subito la storia, e vorrebbe invece adesso farla.
L’aspetto cruciale da affrontare per ergersi a protagonisti del proprio divenire sta – a giudizio di Ciccone – nella mancanza di “norme sociali”, ovvero di una comunità in grado di darsi norme sociali condivide e di rispettarle.
Rileggendo queste pagine straordinarie, ho avuto una volta di più la conferma delle qualità profetiche di Ciccone: l’articolo è stato scritto una quindicina di anni fa, ma possiede una sua prorompente attualità. In calce all’articolo alcuni link di approfondimento.
Foggia tra passato e futuro
di Salvatore Ciccone
Erra, secondo me, chi parla d’una città, Foggia, la nostra città, priva di Memoria; e, come tale, col suo vasto hinterland, volta ad un sogno senza sonno fatto di speranze da evasione. A fronte delle speranze concrete che, altrove, al freddo, si traducono in progetti realizzabili nel medio tempo. E ciò perché non c’è cultura – anche «i selvaggi hanno la loro cultura» – che non rechi stati di coscienza della gioia e del dolore, staccati-frazionati-commisti comunque aderenti a forme di apprendimento-discernimento pregresso, stadi d’esperienza consolidata nel Bene e nel Male e frazioni d’esperienza mancata, emerse, perfino sotto mentite spoglie, alla soglia della coscienza.
Di più, la tradizione oggettiva, quella che conta, in stretta antitesi alla tradizione abituale che, invece, scivola nel basso folclore e nella sceneggiata, discende sì dalle gesta, dal documento, dal monumento, ma anche da altre distinzioni, determinazioni, segnalazioni degli uomini. Purché desumibili. Quindi erra pure chi calpesta con singolare disinvoltura le piccole-medie storie locali.
Senza andare lontano, nella Puglia-Daunia, ancora oggi, in una fase a dir poco avanzata della disgregazione interiore che colpisce la famiglia, il matrimonio, complessa istituzione culturale, non è soltanto sorretto dall’affinità, dalla simpatia e dall’attrazione sessuale, quant’anche da un insopprimibile desiderio di compagnia.
A parte, le “norme religiose” si stagliano sulla scena in maniera pressoché corale: la famiglia rende grazia alla Madre come Mater matrice, alla quale affida, in nome di Maria, la dispensa di alcuni caratteri prudenziali di familiarità: la fede nei misteri rivelati; l’onestà degli intenti per la custodia dell’onore; il ricorso propiziatorio a Santa Rita per una buona morte; il mutuo soccorso tra casigliani; l’ospitalità; la tutela dell’antica pudicizia; la sacrale accoglienza dei “doni della terra” (al ricordo d’un pane con un una croce d’olio sopra); la casa pulita; il letto sempre fatto; il senso del risparmio; il culto dei morti.
Quanto all’insieme degli elementi che informano la nostra società, il discorso diventa, invece, duro, molesto e per certi versi drammatico: si avvertono i guasti delle alterazioni-modificazioni subìte dal paesaggio nell’ambito del rapporto monte-piano e del rapporto città-campagna. Occorrerebbe fare il punto sulla città e l’intera provincia in ordine all’assetto urbano confidato, che tarda a venire; come pure sul capitale fisso del luogo, le così dette infrastrutture che, lungi dal raccordare, si sovrappongono.
Per questi ed altri frangenti giuocano il loro triste ruolo le “norme sociali” che, carenti, al contrario delle “norme religiose”, abbondanti, non hanno consentito, e non consentono, l’evoluzione della personalità sociale in seno ad una struttura sociale incapace di alimentare l’indispensabile coscienza collettiva del singolo. Senza la quale non si può stabilire un raccordo tra le varie norme, anche quelle compendiate dall’uso, e meno che mai volgere all’affermazione di quel “modello di cultura” che i funzionalisti ritengono indispensabile per il decollo d’un’area debole, in via di sviluppo.
Noi della Capitanata abbiamo dinanzi gli effetti d’una designazione negativa siffatta. Tant’è che, attraversando il Tavoliere, la caduta al suolo dell’energia solare, così impunemente dispersa, perché impedita a penetrare il cloroplasto della pianta verde, assente, fa il paio con la caduta delle nostre illusioni; illusioni che, al tempo della prima generazione democratica post-fascista, si presentavano come alte forme di consapevolezza.
E questo mentre acqua, luce, telefono, altro, danno vita e conforto alle poche “case sparse” disseminate nella campagna. Di più, l’irrigazione pubblica di bonifica domina 150 mila ettari del comprensorio; il Gargano “magico” o “segreto” ospita un turismo intelligente e religioso che non ha l’eguale; il parco delle macchine agricole sale ai primi posti della graduatoria nazionale; l’acqua potabile scorre a volontà, 24 ore su 24, e si butta pure nel water, in barba al suo alto costo; il reddito medio annuo pro-capite in Agricoltura supera di due volte il reddito nazionale del settore; l’Archeologia ci pone di fronte al mistero della nostra antica origine; la sopraggiunta Università apre il varco alla ricerca scientifica e quindi all’innovazione; i giovani non mancano. Ma mentre tutto questo bendi Dio riempie il presente della sua essenza, dei suoi contenuti, non si riesce ad uscire dagli ultimi posti della scala reddituale nazionale; non si trova il verso d’assicurare alla popolazione un tenore di vita che vada al di là dei comodi di vita consueti, ed alla”gente minima” il pane quotidiano. L’espressione è di Mimina Tenore, scrittrice dimenticata.
Osta la condizione della grande area piana e costiera caoticamente industrializzata contro i nostri stessi gruppi d’interesse, e superaffollata, in uno con le zone interne, collinari-montane, semiabbandonate e dedite alla frana.
Ma, in fondo, anche se l’industria, sottodimensionata, ristagna al punto da confinare il reddito così in basso, il guaio è rappresentato dalla struttura sociale, disgregata interiormente, e dalle “norme sociali” che, carenti come si è detto, trovano la via per convertirsi alla conseguente mancanza di spirito associativo e d’intrapresa. Ne deriva l’imitazione gestuale, indotta, che genera “norme devianti” ancor più leste delle norme del codice di procedura penale.
Si acuisce – al tempo stesso – la “funzione selettiva” che, stando alla celebre Scuola di Harvard, ravvisa nel “proprietario”, in senso stretto, l’artefice della selezione, sì da ridurre ai minimi termini il valore ed il senso dell’ “autonomismo” allontanando da sé medesimo e dai suoi sodali ogni controllo, vicino ed immediato, dei propri profitti. Si tratta di ricchezza accentrata nelle mani di poche persone e gruppi parentali.
Senza dire che, conferendo la condizione aziendale ad un tal personaggio si rischia di debellare ulteriormente i sistemi cooperativistici, capaci ancora di prevenire, tra l’altro, ogni tipo di “blocco agrario”, sempre in agguato, e stigmatizzato con particolare vigore – a suo tempo – proprio dal maggior sostenitore dell’ “autonomismo”, Guido Dorso, detto il “Machiavelli d’Avellino”.
Se poi è vero che tra passato e futuro c’è un presente che, partecipando, segna il passaggio, or lento or veloce, del tempo del Dolore, non c’è chi non veda il nostro tremendo West: la Puglia-Daunia dei contadini è recente ma viene da molto lontano. Recente è pure la bonificazione che ha tolto dal “suolo siccitoso e malarico della pastura” una torma d’anime, senza tempo, perduta nella steppa sotto l’immensità degli spazi siderali, là dove non è concesso all’uomo nemmeno il conforto – consolatorio, lenitivo della piaga – di misurare la posizione del suo corpo nello spazio, d’avvertire, in una parola, la sua sensibilità spaziale.
Vuol dire che non si può parlare a vanvera della limitazione dell’orizzonte spazio-temporale degli uomini, dei nostri vecchi, soprattutto, dinanzi ai quali, come ai bonificatori, bisognerebbe stare in piedi e a capo scoperto.
L’espressione “suolo siccitoso…” eccetera è d’un nostro conterraneo dimenticato, more solito, Domenico Lamura, medico-scrittore di Trinitapoli, che in una memorabile rievocazione della gente emersa dalla palude, Terra Salda, Simone Editore, Napoli, 1958, ricostruendo la vicenda di chi corse a dissodare la “terra salda del soppresso Tavoliere” al tempo dei primi governi italiani, non ha trascurato di attraversare i tempi del dolore che si allungano per chi, privo di speranza, assoggettato, chiede affetto. E fors’anche compassione. Come il pane e l’acqua. Affetto, compassione e pane che, mescolati, si sostituiscono alla brama di conquista materiale, alla competizione, al successo. Di qui la nostra “ignavia colposa”?
Salvatore Ciccone
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Ciao Geppe…auguri per la tua nuova iniziativa culturale. Bello iniziare un ricordo di Salvatore Ciccone…mi voleva bene e mi considerava il suo "figlioccio"..mi ha dedicato diverse presentazioni critiche…Pochi mesi prima della sua caduta causa della sua morte dopo pochi mesi nell'agosto del 2009…durante la mia mostra a palazzo Celestini….gli avevo promesso che pur di avere la sua presenza in mostra l'avrei portato in braccio, facendo sorridere la sua compagna Amalia…purtroppo pochi giorni dopo ci lasciò lasciando un vuoto nella cultura foggiana ancora vacante…..(non era napoletano era della terra dell'osso, dell'Irpinia, io Sannita per questo il nostro feeling era viscerale……marioraviele