Meridionali e foggiani. Piagnoni e lamentosi? Il dibattito aperto su Lettere Meridiane dal direttore della Biblioteca Provinciale di Foggia, Franco Mercurio, e proseguito da Massimo Mazza, sulla tendenza dei nostri concittadini a lamentarsi, spesso più del necessario, ha stimolato in Girolamo Arciuolo una bella riflessione, che trae origine da un episodio realmente occorso un paio di anni fa all’autore. Vi si riflette su un tema importante – l’origine del divario tra Nord e Sud e la questione meridionale – che da tempo sembra essere stato ormai rimosso dall’agenda politica del Paese, nonostante la sua persistente – starei per dire dirompente – attualità.
Ecco il bel contributo di Girolamo Arciuolo.
Da ragazzo lessi un testo “Contro la Questione Meridionale: studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia” (di Edmondo Maria Capecelatro, Antonio Carlo, 1975, edizioni Savelli), che mi aprì gli occhi. Si raccontava di un Meridione d’Italia che al momento dell’unificazione era sviluppato in alcune zone come e talvolta più che al settentrione.
Da quel momento non ho più visto il meridione con gli occhi del lamento.
Il movimento risorgimentale italiano tentò a lungo di coinvolgere nell’impresa della costruzione dello Stato Unitario la monarchia dei Borbone, una delle più prestigiose, con importanti legami e rapporti nella grande aristocrazia europea e con Papato. Ma senza successo. La questione è nota agli storici e viene raccontata anche nello splendido film di Mario Martone “Noi Credevamo”.
Quella monarchia non poteva tradire il mondo di cui era espressione. Nel giro di pochi decenni tutte le monarchie che non riuscirono a comprendere i tempi, scomparirono.
I Savoia erano una monarchia minore e ambiziosa e sia pur tra tanti dubbi si prestarono al progetto.
Forse anche grazie a queste letture fatte quando ero proprio un ragazzino, ho sentito sempre con disagio la retorica meridionale dei briganti e mi sono sempre infastidito (e continuo a farlo) quando nelle serate davanti a un fuoco acceso qualche amico, inforcata la chitarra, inizia a cantare con espressione sentita “Brigante se more”
Qualche tempo fa, con degli amici ci siamo fatti una passeggiata domenicale al Castello di Lagopesole, un imponente Castello Federiciano, ad Avigliano, in provincia di Potenza.
Il castello è totalmente restaurato, aperto al pubblico al prezzo di un biglietto di ingresso di pochi euro, grazie alla presenza di alcune signore, credo dipendenti di quel Comune o di qualche cooperativa di servizi.
In quell’occasione c’era una bella, commovente mostra di foto e cartoline di emigrati italiani della Basilicata verso le Americhe, soprattutto verso l’America Latina. La maggior parte delle cartoline e delle foto era di pochi anni successiva all’Unità d’Italia e il dato veniva evidenziato e spiegato nei testi della mostra: la regione ne uscì spopolata e impoverita.
La Basilicata è anche la terra del brigantaggio. Il Castello di Lagopesole venne addirittura occupato per un periodo dai briganti capitanati da Carmine Crocco.
Ma quel castello fa parte della rete dei Castelli Federiciani e veniva preferita come luogo di residenza da Re Manfredi.
Nell’ampio vano di ingresso c’è un ampio tavolo dove si comprano i biglietti e dove sono esposti decine di testi, di editori ed autori minori o semi-sconosciuti, per lo più dedicati alla Guerra dei Briganti e al Brigantaggio. Molto più ridotta è invece la presenza di testi dedicati a Federico Secondo di Svevia.
La storia di un ritardo, di un errore storico, è diventata una storia da raccontare e da rivendicare. La Storia.
La storia di un progetto anticipatorio e universale, che ci ha lasciato in eredità opere imponenti e grandiose e che continua a renderlo ancora adesso unico e speciale, viene invece quasi dimenticata.
Quanti sono i Foggiani che conoscono che proprio Foggia è stata la Capitale del Progetto imperiale di Federico II di Svevia?
Eppure andando in una antica importante libreria foggiana, oramai tristemente decaduta, cosa si trova? decine di testi di autori per lo più ignoti di editori semisconosciuti, dedicati al meridionalismo più retrivo.
Severgnini ha quindi visto bene. In noi c’è qualcosa di importante, ma lo facciamo recedere a indistinto sottofondo, mentre facciamo prevalere la nostra parte minore.
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