Una vita al servizio dei lavoratori, dalla parte dei più deboli, sempre a cavallo tra il partito e il sindacato. È stato presentato nella sala consiliare del Comune di Troia il libro “La politica per passione” di Leonardo Lioce, esponente politico troiano, che in passato ha ricoperto la carica di sindaco della cittadina del rosone e di Presidente del Consiglio Provinciale di Foggia.
Nel volume, edito dalle Edizioni Il Rosone, Lioce ripercorre – con un ricco corredo di fotografie e di documenti – le diverse tappe della sua vicenda politica, raccontando anche alcune pagine poco note della storia troiana, come quelle che caratterizzarono la caduta del fascismo e la nascita della democrazia, all’indomani della Liberazione.
Ho preso parte alla serata in quanto autore della “post-fazione” al volume, ed è stata un’occasione propizia per ritrovare tanti amici che non vedevo da tempo. Hanno partecipato all’incontro, oltre all’autore, Angelo Rossi, saggista ed autore della prefazione, il sindaco di Troia, Edoardo Beccia, e Falina Marasca, responsabile della casa editrici il Rosone.
Ecco quanto ho scritto nella post-fazione al bel libro di Lioce.
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Leonardo Lioce è stato un protagonista ed un testimone significativo del XX secolo in un pezzo di Mezzogiorno – la Capitanata – in cui, soprattutto nel Novecento, si sono concentrati personaggi e momenti importanti che hanno scritto la storia di tutto il Paese.
Per comprendere quale fucina politica sia stata la provincia di Foggia, quale laboratorio di democrazia e di civiltà politica basti ricordare che in questa terra hanno avuto i natali Giuseppe Di Vittorio, mitico sindacalista che guidò le lotte per la terra e per l’emancipazione dei braccianti, ma anche ad Antonio Salandra, il presidente del consiglio dei ministri che dichiarò la prima guerra mondiale, e Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia e fondatore dell’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno.
Come Lioce, Antonio Salandra era nato a Troia; Menichella vide invece la luce nella vicina Biccari.
Al di là del comune luogo natale, c’è anche un curioso dato storico e statistico che collega Salandra e Lioce, pur se molti decenni hanno separato le loro vite: entrambi sono stati presidenti del consiglio provinciale, ed entrambi hanno particolarmente operato per affrancare i Monti Dauni dallo storico isolamento cui li ha condannati una posizione geografica che in altri tempi era felice, ma che con il trascorrere dei secoli ha visto le direttrici dello sviluppo spostarsi sempre di più verso la piana.
Che personaggi di così alta statura siano nati da queste parti non è soltanto una coincidenza: le dolci colline della Daunia sono sempre state territori dalle forti passioni politiche, e una ragione forse c’è.
Nel suo celebre saggio La tradizione civica delle regioni italiane (Mondadori, 1993), Robert Putnam ha individuato nel differente livello di civicness il motivo che ha innescato il divario tra Nord e Sud. Il termine civicness è di difficile traduzione, perché non ha un equivalente in italiano; è qualcosa che ha a che fare con il senso civico e con il capitale sociale che da questo scaturisce. La tesi di Putnam è arcinota, e ha dato vita ad una vera e proprio scuola di pensiero: il livello di civicness è più basso nel Mezzogiorno perché quest’area del Paese è stata sempre governata da strutture autocratiche (imperi, regni) di vasta dimensione che hanno in qualche modo attenuato il senso e la cultura della municipalità e della partecipazione. Imperi e regni sono rimasti lontani dalla comunità mentre nel Nord sono fiorite, fin dal Medioevo, forme di governo più o meno democratico, come i comuni. I settentrionali sono diventati presto cittadini, i meridionali sono rimasti sudditi.
Ma non dappertutto. Non a Troia, non nei Monti della Daunia, che rappresentano una delle più significative eccezioni alla tesi enunciata da Putnam.
Nelle colline dell’Appennino Dauno, i comuni – vuoi per le loro piccole dimensioni demografiche, vuoi forse anche per il loro isolamento rispetto al resto del territorio – sono stati da sempre incubatoi di democrazia e di senso civico. Non è un caso che Troia sia una delle più antiche civitas, e che sul suo stemma rechi l’acronimo SPQT, Senatus PopulusQue Troianus.
È in questo laboratorio politico e sociale che si è forgiata l’esperienza di Leonardo Lioce, che è stato uno dei personaggi più simbolici e rappresentativi della transizione troiana da civitas a terra di civicness.
Una vita – quella di Lioce – trascorsa tra le mura delle istituzioni locali, il Comune, la Provincia, la Comunità Montana, l’Asl in una stagione in cui fare politica voleva dire mantenere rapporti saldi con quella che veniva definita una volta la base, ma di cui non bisogna dimenticare che è sempre stata gente in carne ed ossa, con piccoli e grandi problemi la cui soluzione affidava alla politica.
La vita quotidiana di Leonardo Lioce è stata sempre scandita dal ritmo della politica di quella Prima Repubblica troppo frettolosamente liquidata in omaggio a nuovi ed improbabili modelli. Che si militasse in un partito o nell’altro, la politica era sempre servizio, ancorché fazione. E Leonardo Lioce, se non era in Comune ad amministrare, avreste potuto certamente trovarlo al sindacato oppure nella sezione del partito, ad incontrare persone, a comprenderne i problemi.
La cultura sindacale rappresenta una pietra d’angolo per la formazione politica di Lioce, così come lo è stata per diversi altri della sua generazione, e d’altra parte è lo stesso autore a sottolinearlo, senza mezzi termini, nel suo memoriale. Non è un caso che il sindacato resti, nel nostro paese, uno dei sistemi di valori maggiormente riconoscibili e condivisi, diversamente da quanto è accaduto ai partiti della Prima e della Seconda Repubblica che hanno cambiato nome, simbolo e dna.
Riuscire a mantenere legami saldi con la cittadinanza è l’atto fondativo, il presupposto di ogni forma di civicness. Leonardo Lioce non ha imparato questa lezione in un’aula accademica, ma da quella scuola ancora più dura che è la vita, che viene quotidianamente declinata nelle strade e delle piazze.
Il libro che state per leggere non è soltanto il racconto di una vita spesa per il partito e il sindacato, ma possiede anche un grande valore di testimonianza. Il memoriale di Lioce è un affresco, con tanti protagonisti; è un romanzo che racconta la vicenda collettiva di una comunità che ha affidato alla politica la sua ansia di democrazia e di riscatto.
Ci sono tantissimi nomi e cognomi nel libro: ed è bello sottolineare che il prodigioso impegno mnemonico dell’autore sottrarrà al rischio dell’oblio tante donne e tanti uomini che hanno avuto una parte più o meno in questa storia collettiva.
Vi sono alcune pagine memorabili di storia civica e politica di Troia, che gettano una luce nuova su fatti ed episodi che mai prima di adesso erano stati raccontati con tanta dovizie di particolari , come l’appassionata ricostruzione della iniziazione politica di Lioce che coincide con una pagina cruciale della storia troiana: la liberazione della cittadina dal nazifascismo.
Il battesimo di Lioce ebbe un padrino d’eccezione: Pasqualino Pasqualicchio, eccezionale figura del comunismo pugliese, medico rivoluzionario, la cui memoria e la cui straordinaria eredità politica e morale, andrebbero in qualche modo rivalutate.
Troia è stata città dalle forti passioni politiche perché ha avuto protagonisti di spicco a livello regionale e perfino nazionale tanto nel Partito Comunista quanto nella Democrazia Cristiana. La contrapposizione tra i due universi fu sempre netta, ma sempre di alto profilo, e proprio all’ombra del più bel duomo romanico pugliese e del suo rosone asimmetrico, vennero sperimentate a livello amministrativo le prime forme di collaborazione tra comunisti e democristiani, nell’atmosfera del compromesso storico vagheggiato da Moro e da Berlinguer.
Lioce diventerà sindaco di Troia all’indomani di quella stagione politica, e diversi anni dopo sarà invece presidente del consiglio provinciale, anche in questo caso al culmine di una tra le più significative stagioni politiche degli ultimi decenni, quella guidata dal compianto presidente della Provincia, Antonio Pellegrino.
Il libro è illuminante anche perché racconta, con la lucida consapevolezza dei tempi, la vita di un “rivoluzionario di professione” nei difficili anni Cinquanta e Sessanta, quando la lotta di classe e lo scontro tra le due culture diventarono più aspri. La nitida memoria di Lioce ricorda e scandisce con un candore cronachistico che avvince e convince i suoi molteplici arresti.
Il suggerimento ai lettori più giovani è di immergersi nello spirito dell’epoca, storicamente scandita dal processo di costruzione della democrazia italiana, tutt’altro che lineare ma spesso tormentato. La generazione di Lioce ha pagato un duro prezzo, fatto anche di privazione delle libertà personale, per consentire al Paese di respirare l’impagabile aria della libertà, che dà ossigeno alla crescita civile ed economica di una Nazione.
La morale dell’opera di Lioce, il messaggio ideale e politico che ci lascia è che la democrazia non è un dono del cielo, ma una conquista che va facendosi (o disfacendosi) giorno per giorno. E che proprio per questo va costruita con passione e difesa con tenacia.
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