Giuseppe ha sei anni, e sta imparando a scrivere e a leggere. Andrà a scuola soltanto a settembre prossimo, perché sua madre – mia figlia – non ha voluto iscriverlo alla primina (mannaggia). Lo guardo che come tutte le mattine armeggia sul mio iMac. Da qualche giorno non si accontenta più del mouse e di cliccare sulle figure dello schermo, ma abbozza parole.
Ha capito che ogni strada possibile della Ragnatela passa da Google. Lo sorprendo che ha digitato GAN, e i suoi occhi si illuminano. Non c’è bisogno neppure che completi la parola, ci pensa Google a suggerirla. I precisi algoritmi del motore di ricerca e la cache del browser gli hanno fatto trovare subito quel che cercava, evidenziato dai thumbnail di YouTube (le anteprime). È il videoclip tormentone Gangnam Style del rapper sudcoreano Psy.
Per Giuseppe, le lettere che compongono parole hanno un rapporto immediato con le cose, seppure leggere ed immateriali del web. C’è una differenza sostanziale con noi, che abbiamo imparato a scrivere con carta e matita. Specularmente opposta, direi.
Compilando segni che formavano lettere e poi parole – dopo mesi di esercitazioni orientate alla produzione di segni senza senso (le asticelle, le ricordate?) – noi trasformavamo la materia (carta e grafite) nella splendida astrazione dei concetti. I bambini non sanno che nei nomi stanno le cose, ed era laborioso immaginare (astrarre) che scrivendo UVA quei tre segni fossero il significante del frutto dai dolci grappoli. C’era molta astrazione in quel modo di fare (ma non è detto che fosse un male, anzi…), laddove proprio nell’era globale c’è una maggiore concretezza.
Per Giuseppe non è così. Le lettere e le parole restano assolutamente immateriali: bit prodotti dalla tastiera dell’iMac, che si trasformano in stringhe nel motore di ricerca e gli danno accesso infinito al mondo delle cose, pur esse immateriali, come i video di YouTube o i giochi delle pagine web. Ma il tutto produce senso.
Il paradosso è che proprio nell’era digitale e senza carta, che tutto dematerializza, le parole diventano ancora di più cose, come amava ripetere il mio amico e maestro Gabriele Consiglio, che ha dedicato tutta la sua vita alle parole. Il rapporto tra significante, significato e referente, non è più affidato soltanto all’astrazione del concetto, ma alla compatta leggerezza dei bit.
Giuseppe adesso balla al ritmo di Gangnam Style, soddisfatto. Provo a spiegargli che anche nel mondo della rete e dei pc, le cose non sono sempre come appaiono. Non sono parole, o pagine o video o giochi: in quel mondo la madre delle cose sono i numeri, e neanche tanti numeri, soltanto due: uno e zero, acceso e spento.
Mi sorride, contento. Il rap sale di ritmo, e lui continua a ballare.
P.S.: Se vi è piaciuto questo post, vi inviterei a leggere: Dov’è finito l’arcobaleno?
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