La pubblicazione dei dati dell’indagine annuale del Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle province italiane provoca ogni volta polemiche più o meno vivaci, che raramente lasciano spazio ad una riflessione approfondita o, peggio ancora, durano lo spazio di un mattino. Spenti gli echi dei dati, tutto torna come prima.
Questo è successo anche in riferimento agli ultimi dati, e non dovrebbe essere così visto che il quotidiano economico-finanziario ci ha classificati che peggio non si potrebbe. Ultimi, senza se e senza ma.
Come era successo negli anni precedenti, a commento dei dati precedenti (che erano per quel che ci riguarda lo stesso tutt’altro che positivi) dopo il clamore dei primi giorni, nessuno ne ha parlato più. E chissà che non stia proprio in questa indifferenza una delle ragioni di questo declino che ci ha portati così in basso.
Ragioniamone a bocce ferme, allora, ponendoci un interrogativo di più largo respiro rispetto a quello legato alla pubblicazione delle classifiche. Partendo dal dato di fatto che il declino è un processo non congiunturale, ma che segue un trend che si è andato purtroppo sempre più consolidando nel corso degli anni, la domanda da porci è: come può accadere che precipiti all’ultimo posto della classifica italiana della qualità della vita, una provincia come la Capitanata, che fino agli anni Settanta del secolo scorso veniva annoverata tra le “aree canguro”, ovvero tra quelle che esibivano il tasso più rapido ed elevato di riduzione del divario con il Centro Nord?
Come si può cadere così in basso, in soli quarant’anni? La Capitanata fanalino di coda è una novità, ma soltanto dal punto di vista statistico, perché – come abbiamo già detto – il processo di declino era in atto da tempo, e ci vedeva perdere anno dopo anno posizioni su posizioni, e facendoci sempre più scivolare verso gli ultimi posti della classifica. Adesso abbiamo toccato davvero il fondo, e gli inguaribili ottimisti diranno che, almeno, peggio di così non può andare.
Per capire fino in fondo i dati, però, è necessario collocarli all’interno di un processo, assai più lungo e più complesso rispetto a quanto possa essere rivelato dalle nude cifre della indagine del Sole 24 Ore, che misura peraltro le variazioni da un anno all’altro e non può dunque dare conto di un fenomeno di lungo periodo.
Dobbiamo chiamare in soccorso la storia. Immaginiamo di sfogliare un ideale album di famiglia: le fotografie delle ultime pagine di quest’album ci restituiscono l’immagine di una Capitanata brutta, anzi orribile.
Ma se sfogliamo l’album all’indietro, ci accorgiamo che una volta non era così: la provincia di Foggia era addirittura una bella signora. Qualcosa è successo, dunque, per trasformare così in peggio questa terra. E non è stato soltanto il destino cinico e baro.
Quella dell’album non è soltanto una metafora. Suggerirei a quanti volessero approfondire la questione, la visione di uno splendido compact disc pubblicato circa un anno fa dalla Biblioteca Provinciale di Foggia, che racconta, attraverso le immagini dell’istituto Luce, la storia del Novecento in Capitanata.
Quante immagini, vi si trovano della “bella Capitanata”. Ve le proponiamo, a margine di questo post. Sfogliando i filmati della Settimana Incom (una bella e ricca selezione è stata pubblicata anche dal sito Small Town Foggia) si apprende che la provincia di Foggia (che proprio all’inizio del Novecento dette alla politica nazionale addirittura un presidente del Consiglio, Antonio Salandra, da Troia) è stata interessata dagli anni Trenta agli anni Settanta da una mole di investimenti pubblici che ha pochi e forse nessun paragone con altre province meridionali.
Nessun’altra area del Sud è stata oggetto di una progettualità di alto profilo, come il Tavoliere di Puglia: il fascismo investì nella bonifica, nell’acquedotto, sognò la grande Foggia parzialmente concretizzata con una serie di edifici pubblici che ancora oggi costituiscono l’ossatura dei servizi pubblici (palazzo degli Studi, palazzo degli Uffici, Stazione ferroviaria). E dopo il fascismo, l’opera di consolidamento della dotazione infrastrutturale della città e della provincia fu proseguita dalla Cassa del Mezzogiorno, che avviò con la costruzione della diga di Occhito la rivoluzione irrigua e con la realizzazione del Villaggio Pugnochiuso, la scoperta turistica del Gargano, gettando nel contempo le premesse per la stagione della industrializzazione attraverso una robusta iniziativa delle Partecipazione Statali.
Occhio alle date. Il processo di crescita strutturale ed infrastrutturale della Capitanata comincia negli anni Trenta, prosegue con la sola tragica parentesi della guerra per quasi mezzo secolo, per arrestarsi proprio negli anni Settanta, ovvero nel periodo di splendore sviluppo della provincia, che faceva addirittura balzi da canguro, come si è già detto nella metafora dell’inizio.
Che accade negli anni Settanta?
Semplice, addirittura disarmante. Aprono i battenti le Regioni. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno passa dalle mani della Cassa per il Mezzogiorno e delle Partecipazioni Statali a quelle delle Regioni, e le mani della Regione Puglia si dimostrano assai poco prodighe nei confronti della Capitanata.
Altro che “foggianesimo” così come sostiene ogni tanto il presidente della giunta regionale Nichi Vendola, quando accusa neanche tanto larvatamente i pugliesi nel nord della Regione di lamentarsi e basta. Va detto che il governo presieduto da Vendola è stato tra quelli che hanno cercato maggiormente di operare nella direzione di un riequilibrio dei diversi “sviluppi locali”. Ma, forse, la frittata era già stata fatta. Qui sono i fatti a parlare, ed i fatti dicono, incontestabilmente, che i cantieri irrigui avviati dalla Cassa per il Mezzogiorno si inceppano; che gli insediamenti industriali e non promossi dalle Partecipazioni Statali, uno dopo l’altro, chiudono i battenti e smobilitano, spalancando le porte al “decennio debole” scandito dagli anni Ottanta.
L’avvento del regionalismo è stato una sciagura per la Capitanata, ed ogni sincera volontà di riequilibrio dovrebbe fare i conti con questo dato, di lapalissiana evidenza. Bisogna in ogni caso ripartire dalla Puglia: più precisamente, fare i conti, una volta per tutte con una Regione che non può chiamarsi fuori da quanto sta accadendo nella parte settentrionale del suo territorio.
Va comunque detto che non è stata soltanto via Capruzzi ad innescare il processo di frenata delle prospettive di sviluppo della Puglia settentrionale. Se il 1° gennaio 1970 è una data da segnare in nero nella storia della Capitanata, lo è anche quella del 23 novembre 1980, giorno del sisma che distrugge l’Irpinia.
La ricostruzione post terremoto gioca un altro brutto tiro alla provincia di Foggia, nel senso che trasferisce alle aree della Campania e della Basilicata danneggiate dal sisma quel sistema di convenienze e di opportunità agli investimenti industriali, che fino ad allora aveva trovato un suo naturale bacino nella provincia di Foggia, privilegiata in questo dalla sua favorevole posizione geografica.
Non è un caso che negli anni Ottanta e negli anni Novanta, l’economia della provincia di Foggia non abbia fatto registrare nuove apprezzabili iniziative industriali, ed abbia dovuto anzi registrare l’arresto e l’asfissia di quel processo virtuoso che aveva portato ad insediarsi in Capitanata grosse aziende come l’Aeritalia, la Lanerossi, la Sofim. A questa situazione hanno tentato di porre riparo, più tardi, il contratto d’area e i nove patti territoriali che sembravano aver fatto diventare la provincia di Foggia un “laboratorio della programmazione negoziata”. Per usare un eufemismo diciamo che i risultati sono stati decisamente inferiori alle attese, anche perché il tentativo di reindustrializzazione della Capitanata si è consumato in uno scenario caratterizzato da un persistente deficit infrastrutturale.
Clamoroso il caso dell’Alenia, che era intenzionata in un primo momento a lavorare a Foggia la commessa Boeing, ma l’ha trasferita poi a Grottaglie, in quanto la viabilità attorno allo stabilimento di Incoronata non avrebbe consentito la manovra degli autoarticolati preposti al trasporto delle fusoliere.
Ma torniamo ai “danni indotti”, provocati dal sistema dell’Irpinia. Il trasferimento nelle province limitrofe di quel quadro di incentivi che fino ad allora aveva in qualche modo premiato la provincia di Foggia, si risolve per quest’ultima nel peggiore dei modi. Paradossalmente, gli investimenti per la reindustrializzazione dell’Irpinia e della Basilicata hanno provocato la deindustrializzazione della provincia di Foggia. È brutto dirlo, perché fa tanto “guerra tra i poveri” ma va detto: pensate che la Fiat sarebbe andata ad insediare il suo stabilimento a Melfi, se in Lucania non avesse trovato incentivi finanziari più appetibili, rispetto a quelli offerti dalla vicina Puglia?
La classe dirigente provinciale si avvide del grande pericoloso che si correva e chiese il riconoscimento della Capitanata quale area di crisi, invocando l’estensione ad essa delle provvidenze per la reindustrializzazione previste per le aree terremotate. Non furono in molti a rendersi conto dell’importanza cruciale di quella richiesta, che venne respinta dal Governo.
Quel diniego è stato l’ultimo atto di una serie di scelte politiche che hanno pesantemente danneggiato la Puglia settentrionale, inverando la metafora coniata qualche anno fa dal Censis per descrivere lo stato dell’arte della nostra terra. La Capitanata veniva dipinta come il “buco nero” del corridoio adriatico dello sviluppo: immagine tanto suggestiva, quanto purtroppo veritiera.
L’essere precipitati all’ultimo posto della classifica nazionale del Sole 24 Ore, conferma le previsioni più fosche ed il pessimismo di quanti giudicavano il bicchiere mezzo vuoto. Però il fatto è che, adesso, il bicchiere si è svuotato del tutto, e lo sviluppo inceppato della Capitanata sembra avere imboccato la strada pericolosissima del sottosviluppo e di un irreversibile declino.
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TERNA VINCENTE x L'ITALIA
La terna vincente per l'Italia sarebbe costituita: dallo scalpitante puledro politico: RENZI, al tiro del carro del Partito Democratico e di tutta la coalizione politica di centrosinistra, dall'attempato (ma non vecchio) ed apprezzabile politico: BERSANI, alla guida del carro del PD e di tutta la coalizione, a sostegno e non concorrente di RENZI, protetti entrambi dall'ombrello di MONTI, alla carica del Quirinale.
Una tale soluzione permetterebbe a RENZI di vincere al primo turno le primarie e di portare il consenso elettorale del PD a livelli finora mai raggiunti e, con il premio di maggioranza, raggiungere una rappresentanza parlamentare che lo metterebbe al riparo da eventuali potenziali condizionamenti e/o ricatti degli alleati di coalizione, oltre a sgonfiare la bolla del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo:
D'altra parte se già ha dimostrato maturità ed apertura democratica nel concedere a RENZI lo spazio della candidatura, violando lo stesso statuto di partito, nulla vieta di potersi spingere anche oltre, cioè al ritiro della propria candidatura contro RENZI, coinvolgendo questi in un patto politico di ferro, al fine di riaccendere la speranza del popolo italiano in un futuro migliore, oltre che rinverdire la fisionomia dello stesso Partito Democratico.
Se avesse il coraggio di spingersi a tanto,BERSANI dimostrerebbe di avere una visione strategica e politica da vero statista, che sicuramente lo ripagherebbe nel prossimo futuro.
Un'accoppiata del genere: RENZI – BERSANI, al riparo di Mario MONTI al Quirinale, garante nazionale in ambito europeo ed internazionale, è il massimo che oggi possa offrire il mercato politico italiano.
Amaro
(Autore del saggio politico-istituzionale: "TERZA VIA – Oltre i limiti del Comunismo e Capitalismo" edito dalla BASTOGI e reperibile sul sito: http://www.terzavia.info )
Bella analisi.
Mi permetto di fare qualche osservazione a latere.
Negli anni ottanta l'Italia ha cercato e in qualche modo trovato un tipo di presenza industriale basata su capitali privati. Sono stati gli anni della sostanziale dismissione delle “partecipazioni statali” e dell'affermazione del sistema dei distretti produttivi manifatturieri, del “Piccolo è bello” e del “Made in Italy”. È stata la particolare modalità con la quale l'Italia ha deciso di rispondere alla crisi della fabbrica fordista. La ragione divulgata è stata la presenza onnivora dei partiti. La seconda non era meno vera della prima ma era facilmente superabile con pochi efficaci provvedimenti normativi. Bastava fare delle semplici riforme.
Noi abbiamo in tal modo rinunciato a furor di popolo sotto una campagna di stampa ben orchestrata al settore petrolchimico, a buona parte della siderurgia, alla cantieristica navale al settore delle c.d grandi opere, ecc. Siamo stati i primi a produrre un personal computer, abbiamo realizzato grandi dighe e autostrade in giro per il mondo, abbiamo messo elettrodomestici in ogni casa europea e abbiamo invaso il pianeta di vaschette di moplen. Oggi stiamo rinunciando con altrettanta incoscienza alla nostra industria automobilistica e a quello che resta della nostra industria siderurgica, mentre a oggi non abbiamo prodotto un solo smartphone o un tablette o un televisore lcd. Siamo inoltre totalmente o sostanzialmente assenti, come produttori, nei settori delle energie alternative, dalle biotecnologie, del farmaceutico.
Ci vantiamo però di produrre divani e minigonne molto belle.
Abbiamo cioè dismesso il settore industriale a favore di quello artigianale e abbiamo cambiato nome a quest'ultimo chiamandolo pomposamente “settore industriale” e abbiamo messo a capo di confindustria sanguigni rappresentanti di quel mondo.
Spesso lo abbiamo fatto a favore della Germania, la quale, invece non ha affatto dismesso il suo sistema industriale e ha risolto la crisi facendo riforme serie, alzando il livello di conoscenza contenuta nel ciclo (sia in termini di prodotto che di processo) e dismettendo serenamente e lucidamente il loro settore manifatturiero semmai proprio a favore dell'Italia.
Oggi ci accorgiamo che non possiamo più competere nel mondo globalizzato in termini di costo della manodopera mentre le nostre produzioni sono alla portata di chiunque. Continuiamo a raccontarci che solo noi abbiamo la manualità necessaria ma si tratta di una vera e propria balla.
Ciò che voglio dire è che sicuramente la Provincia di Foggia ci ha rimesso dalle politiche degli spezzatini, degli anni ottanta ma ci sta rimettendo anche l'itera Nazione.
Il tutto in un quadro politico-amministrativo che non consente più politiche di governo.
Parlavo qualche giorno fa con il professor Viincenzo Cerulli Irelli sul tema dei risultati delle riforme del sistema delle autonomie locali e del c.d federalismo. A livello accademico il dato del fallimento è già acquisito. Anche quelle politiche sono state prodotte esattamente in quegli anni.
Uno dei sottoprodotti di tale situazione è la politica che si occupa di rappresentare le istanze localistiche.
La frammentazione/frantumazione di competenze non già su materie ma su base territoriale porta anche a questa sorta di guerra di territorio con politici spesso un po' “terra terra”.
Una delle ragioni per cui sono personalmente contrario alle rappresentazioni rivendicazionistico/localistiche è anche dovuta alla considerazione che o si ha la capacità di avere visione di insieme o non si governa neppure un piccolo comunello di montagna. Lo vedo qui a Monte S. Angelo, diventato per tanti versi un piccolo comunello di montagna nonostante le sue potenzialità e la sua storia. Il livello della cd politica è sconcertante. Non si ha nessun tipo di visione, neppure di breve periodo e neppure solo di livello locale e non si governa un bel niente e neppure si amministra. Al più si rappresentano (meglio: ci si illude di rappresentare) piccoli interessi localistici.