Potrebbero anche non essere soltanto boutade o sogni, quelli dell’assessore provinciale della Bat, Pompeo Camero, che soppesando l’unificazione tra il suo territorio e quello della Capitanata vagheggia la possibilità che le due province assieme vadano a costituire una nuova Regione, o di Lorenzo Lommano, leader della Lega Sannita che vagheggia la Regione Sannio che andrebbe ad accorpare la Daunia, un consistente pezzo della Campania e il Molise o del tenacissimo Gennaro Amodeo che da anni insegue il progetto della Moldaunia, che vedrebbe assurgere a nuova Regione l’accoppiata Molise-Daunia.
Il fatto è che si moltiplicano le voci secondo le quali – dopo aver posto mano alle Province, praticamente dimezzandole – il Governo intenderebbe adesso rivedere i confini regionali, ed anche in questo caso accorpando, unendo, più che moltiplicando, com’è invece successo in passato.
Si avvicina, insomma, l’ora della macroregioni, e, se da un lato questa prospettiva implica che sarà molto difficile che possano aver successo progetti che tendono alla costituzione di nuove microregioni, come quelli di Camero, Lommano e Amodeo dall’altro il possibile rimescolamento dei confini regionali non esclude la possibilità che – seppure all’interno di più vaste aggregazioni regionali – possano celebrarsi nuovi matrimoni tra territori che da tempo si guardano l’un con l’altro con un certo interesse.
L’ipotesi delle macroregioni non è nuova, e fu proprio quella che, qualche anno fa, produsse l’indagine commissionata al Censis dalla Provincia i Foggia allora guidata da Antonio Pellegrino, che produsse, successivamente, il “patto” tra le quattro province di Foggia, Benevento, Avellino e Campobasso.
È una ragione di più per riprendere quel discorso, per approfondirlo e se del caso aggiornarlo, perché l’idea di partenza di quel Rapporto Censis non faceva una grinza: lo sviluppo non è più pensabile, nell’era della globalizzazione, in termini di confini regionali e a maggior ragione provinciali: è necessario ipotizzare nuovi “quadranti territoriali” di sviluppo che esaltino quella che molto efficacemente l’allora presidente della Provincia definiva “identità territoriali dello sviluppo” intendendo con questo sottolineare la possibilità che le specificità, le vocazioni endogene, il genius loci, venga rilanciato in ambiti territoriali affini, ma sensibilmente più vasti.
Resta ancora oggi una sfida, una provocazione non soltanto culturale ma anche politica quanto Antonio Pellegrino scriveva nella presentazione al Rapporto, che venne pubblicato a febbraio del 1999 dall’editore Gerni: “A fondamento di questo approccio c’è l’idea che lo sviluppo possa e debba essere autoprodotto, che i necessari interventi infrastrutturali, le provvidenze, gli incentivi e quant’altro debbano andare a collocarsi in una cornice di intenzioni, di scelte e di programmi effettuati in sede locale …
La domanda alla quale il rapporto del Censis comincia a rispondere è: ha credibilità ed autorevolezza l’idea di un sistema territoriale che valorizzi le caratteristiche di snodo e di raccordo fra il Nord e il Sud,fra l’Est e l’Ovest d’Italia che la Capitanata possiede? Quali territori potrebbero avere un comune interesse alla costruzione di un sistema siffatto? Quali carte, quali “esclusività” possono mettere in campo questi territori?
Non ho bisogno di ricordare che la Capitanata è sempre stata, più che il Nord di un Sud, l’Est di un Ovest: il nostro orizzonte, il nostro punto di riferimento è rappresentato storicamente dalla cresta montana che ci divide da Napoli e Roma più che dalla mite collina che va verso Bari, i Balcani, l’Oriente. Partecipano di questo orizzonte, di queste inclinazioni l’intero Molise, il Beneventano, parti significative dell’Irpinia, il Melfese..”
Mentre pare riprendere quota il progetto delle macroregioni, la Capitanata deve ritrovare le condizioni affinché possa dire la sua circa un tema tutt’altro che banale o scontato: da che parte stare, con chi stare?
Nel Rapporto Censis sono parecchio illuminanti, in proposito, i passi che gli autori dello studio dedicano al gradimento manifestato verso la ipotesi del nuovo quadrante territoriale di sviluppo dagli amministratori locali interessati: “la maggioranza degli amministratori contattati ritiene che i confini regionali siano in linea generale revisionabili a fronte di un consistente trasferimento di poteri e competenze dallo Stato alle Regioni. Nello specifico, circa un quarto degli intervistati vede con favore l’ipotesi di una ”macroregione meridionale” dall’ampia estensione ed oltre un terzo quella di una nuova regione intermedia che comprenda parte del territorio delle cinque province; l’opzione del mantenimento delle attuali suddivisioni è decisamente minoritaria nelle aree montane, raggiunge poco meno della metà delle frequenze nei comuni della Capitanata ed è maggioritaria solo tra quelli della provincia di Potenza.
Quanto ai cittadini dei comuni campione, l’esito della verifica è differenziato: prevale l’orientamento favorevole alla revisione dei confini nei comuni esterni (in particolare in quelli molisani è forte la spinta alla creazione di regioni più grandi).”
Il bello è che in un verso o nell’altro la Capitanata è il baricentro di tanti possibili quadranti territoriali: perfino in un ambito macroregionale può ritrovare la centralità perduta. Ma bisogna evitare quanto proprio Antonio Pellegrino presentando il rapporto stigmatizzava con sottile ironia: “La Capitanata, in questa partita, sembra un giocatore seduto al tavolo senza conoscere le regole, e che per giunta non guarda le carte, quasi che né il punteggio né la gara lo interessino. Mentre gli altri cominciano a correre, noi accentuiamo il carattere tradizionalmente arrancante della nostra andatura. E ci attardiamo a discutere senza interlocutori, come chi prosegua con passione una conversazione telefonica mentre all’altro capo del filo la cornetta è stata da tempo riattaccata.”
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