Gabriele Consiglio: nella parola la follia di esistere oltre

Ho avuto la fortuna ed il piacere di presentare diverse opere della copiosa produzione letteraria di Gabriele Consiglio, e mi sono spesso domandato come abbia fatto una persona come lui – che ha così intensamente vissuto il suo tempo, che tanto ha dato alla famiglia, alla professione, alla buona politica – ad essere anche un così prolifico e splendido scrittore.

Diciassette libri non sono cosa da poco, soprattutto per chi, come Gabriele, non ha mai sprecato le parole, ma piuttosto le ha cesellate e sublimate. Mi ha insegnato la regola – aurea e terribile insieme – che dovrebbe animare chiunque lavori con la scrittura: che per quanto ci si sforzi di dire qualcosa nel miglior modo possibile, ci sarà sempre un modo ancora migliore per farlo, e la continua ricerca di questo modo migliore, di mettere in fila le parole e dar loro significati, è ciò che distingue lo scrittore di razza dallo scrittore per caso. Solo che cercare la maniera migliore per mettere in riga le parole costa fatica, tempo, e talvolta anche sofferenza.

Della sua ultima opera, La Fedora di Cassinelli,  avevamo corretto assieme le bozze soltanto qualche settimana prima della sua scomparsa, e condiviso la presentazione che ancora una volta aveva ritenuto di affidarmi. È stata l’ultima volta che l’ho incontrato. La malattia gli aveva ridotto la vista, ma nello stesso tempo aveva ampliato la sua capacità di scrutare il profondo. Mi stupì, come sempre, ripetendo a memoria quanto avevo scritto nella introduzione, e suggerendomi alcuni ottimi aggiustamenti.

Consiglio ci lascia un patrimonio enorme: fatto di fulgido esempio, di rigore morale, di straordinaria onestà intellettuale e di una bontà sconfinata: si prendeva cura di tutto e di tutti, che fossero congiunti o soltanto amici, che fossero clienti o cittadini. Aveva un modo, come dire, integrale di aderire alla realtà, alla vita, come che si che ogni attimo del tempo è un dono prezioso del Padre, che non va sprecato.

Ma Gabriele ci lascia anche un’altra grande, straordinaria eredità che non sarà consumata dal tempo, e neanche dalla morte. Ci lascia, appunto, un patrimonio fatto di parole, parole amate, cercate, cesellate, parole intimamente collegate al suo cuore, alle sue passioni.
Va dunque cercata qui, nelle pieghe riposte delle sue preziosissime parole, la risposta all’interrogativo di cui ho detto prima: come ha fatto una persona che ha vissuto così intensamente la propria vita pubblica e privata a dedicare tanto tempo e tanta passione alla letteratura?
La risposta è che per scrivere diciassette libri ci vuole una passione innata, profonda per la letteratura, e per la parola.
A ben vedere, è proprio la passione per la parola il filo rosso che annoda i diversi aspetti e le diverse espressioni della vita di Consiglio: il suo essere avvocato, il suo essere politico, il suo essere padre e marito, il suo essere scrittore e poeta.
Gabriele ha dedicato molte pagine alle parole. E molta attenzione. Dalle alte parole della poesia, che danno il titolo ad una delle sue opere più toccanti – Le parole son cose – alle parole di tutti i giorni, che però svelano il modo di essere profondo di una comunità: quelle del dialetto, investigate nel volume La parole nel lessico bovinese.
Alla parola è dedicato un capitolo del libro che meglio rappresenta lo spessore e la complessità di tutta la produzione letteraria dell’autore: Biggirò ed altre cose così. Il brano accosta la parola forense a quella della poesia dialettale e qui Gabriele confessa che non è facendo l’avvocato che ha imparato il senso ed il valore autentico della parola, ma piuttosto dalla vita.
La passione che ha mosso Gabriele Consiglio, questo amore profondo per la parola, non si rivolge dunque alle parole qualsiasi, a quelle che si pronunciano per circostanza, o nelle schermaglie comunicative di tutti i giorni. Sono parole più alte quelle che Gabriele Consiglio ha inseguito, e raccolto, e messo in fila per tutta una vita: sono quelle paro- le che diventano strumento, ponte, anelito di verità.
“La parola dev’essere appunto testimone di verità” asserisce l’autore nel capitolo di Biggirò che ha appena ricordato. Questa caparbia tenace ricerca della verità è stata la costante delle parole di Gabriele Consiglio, siano esse state pronunciate in un’aula di tribunale, o dal palco di un comizio popolare, o affidate alla carta di un libro.
La testimonianza di verità tenacemente cercata da Gabriele Consiglio in tutta la sua vita e il suo lavoro è anche la quintessenza della sua produzione letteraria, che attraversa vari territori: dalla saggistica a sfondo giuridico, che ha caratterizzato soprattutto i primi anni, a quella storica, alla poesia.

Consiglio ha cominciato la sua attività di scrittore con un saggio sociologico e politico dedicato alla sua terra Problemi e prospettive del Subappennino Dauno. Dal versante politico, Consiglio è approdato quindi a quello giuridico, esordendo con un trattato sulla premeditazione, che si pregia della prefazione di Aldo Moro e quindi pubblicando Melanconia e crimine, con prefazione di Enrico Altavilla e Alfredo De Marsico. Le due opere sono intercalate dalle prime pubblicazioni poetiche: Le parole sono cose e Le Piccole Cose, quest’ultima raccolta presentata da Elio Filippo Accrocca, illustre poeta e troppo presto dimenticato direttore dell’Accademia di Belle Arti di Foggia.

Non c’è mai arida saggistica anche nelle opere a sfondo giuridico. C’è sempre passione civile, tensione morale, assidua ricerca della verità. La letteratura, insomma: più precisamente, il senso borgesiano della letteratura.
La prima vera opera di fiction scritta da Consiglio – e speriamo che prima o poi diventi un film – è Biggirò, e in particolare l’omonimo racconto che apre il volume. Gabriele approda relativamente tardi alla fiction, così come accadde per Borges che nella prima parte della sua vita fu soprattutto un poeta ed un saggista. Non è un caso che la prima raccolta di racconti di Borges si chiami Finzioni, e che per superare quel senso di ritrosia che avvertiva nell’accostarsi alla narrativa lo scrittore argentino sia ricorso ad un ingegnoso espediente. Il suo primo racconto è la recensione di un libro, in cui l’autore racconta dettagliatamente il testo, lo riassume per chi non l’ha letto, addirittura ne descrive il peso, la consistenza cartacea, l’odore, la rilegatura. Solo che quel libro non esiste.
In realtà per Borges, così come per Consiglio, la letteratura è la sola possibile verità. E le parole sono il solo possibile grimaldello per squarciare il velo di Maya che circonda le cose, per carpire l’essenza più profonda delle cose.
È lo stesso meccanismo di approccio, di avvicinamento alla realtà che troviamo in Gabriele Consiglio. Che non ha dubbi quando si tratta di eleggere a realtà universale una realtà delimitata: l’omphalos del mondo – così come per Joyce era Dublino – per Consiglio è Bovino, definita nel titolo di un bel libro, Bovino, la Urbino del Sud.
L’autore, in un passaggio, accenna a Bovino omphalos del mondo, e quasi se ne ritrae, timoroso – confessa – di essere tacciato di stupidità e di fanatismo. In realtà non è così: Bovino diventa ombelico del mondo perché è la letteratura di Consiglio a sublimarsi, a diventare universale.
In realtà Bovino è il paese di tutti noi, è quel paese che ci vuole; necessario per affermare la nostra identità, per essere noi stessi. È quel posto di cui conosciamo una per una le pietre, di cui sappiamo i suoni, gli odori, le parole, le parlate, le persone. Quel posto irripetibile e struggente e unico perché è il nostro posto.
Un paese ci vuole: così Consiglio intitola uno dei capitoli di Biggirò, citando il Pavese de La luna e i falò.
Un paese – scrive Consiglio – ci vuole. Per sentirti stretto al tuo mondo, per sentire che sotto i piedi la tua argilla non frana e non ti tradisce, per avere la memoria del tuo passato e non essere orfano di tutto o un sopravvissuto. Ci vuole un paese che ti lega alle radici. Che ti lega a ciò che sei stato prima. Che ti lega a ciò che sei stato prima ancora di nascere nella storia dei tuoi padri.
Consiglio non ha soltanto raccontato Bovino con le sue parole, ma l’anche sublimata con la fotografia che è stata il suo hobby. Parole ed immagini sono legate da un nesso profondo e struggente: sublimare l’attimo fuggente, fermarlo per renderlo eterno, per esistere oltre.
C’è un grande bisogno – leggiamo ancora in Un paese ci vuole – di riappropriarsi delle proprie radici e di confonderle col proprio sangue e col proprio respiro; c’è il bisogno di non essere soli e di durare più a lungo della propria vita; c’è un bisogno umano e religioso di eternità. È quella stesso bisogno che io ho sempre avvertito, giocando con l’attimo fuggente, nel fotografare le pietre, le case, i tetti, i portali, i vicoli stretti, gli echi, i poggi, i merli del vecchio castello, le rocce e gli orizzonti del mio paese. È il bisogno che si confonde con la follia di esistere oltre e che è tanto acuto da farmi sentire che il futuro è già stato e il domani già sa delle cose, delle case, delle pietre del mio paese.
L’idea della parola come strumento e testimonianza di verità trova in Gabriele Consiglio l’espressione più alta nelle sue poesie. Prima de La Fedora di Cassinelli, uscito postumo, le sue due ultime fatiche – Flash e le Filastrocche e le altre – erano state, appunto, raccolte di poesie. Nelle filastrocche la parola aulica dei saggi diventa verso breve, rima che si insegue e produce ritmo. E getta un ponte con la passione hobbystica di Gabriele Consiglio che si è sempre dilettato di fotografia. Ma è un diletto solo parzialmente estetico: la fotografia è immagine che ferma il tempo, e in qualche modo lo consegna ai posteri, rende l’immagine eterna. Così come le parole..
Le parole che testimoniano o almeno perseguono ed inseguono la verità diventano così l’espressione di un anelito d’assoluto, un modo per oltrepassare la barriera del tempo e della nostra finitudine. In principio c’era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, leggiamo nell’incipit del Vangelo di Giovanni. Il nostro Dio Padre ha scelto la parola per rivelarsi. La parola diventa dunque anche uno strumento per elevarsi, per tendere a ciò che sta sopra di noi ed oltre il nostro tempo destinato a finire.
Il regalo più bello e più grande che Gabriele Consiglio ci lascia, la sua più preziosa eredità, sono forse i versi della Filastrocca dell’attimo e della follia di esistere oltre, che così si conclude:
Solo te vo fissando o attimo fatto pietre attimo fatto case le pietre le case del mio paese i tetti le grotte i portali i vicoli stretti gli angoli di muri che sanno i segreti le chiese gli archi i poggi e i merli del vecchio Castello i fremiti del vento oltre la torre le rime oltre i monti di antichi orizzonti
Così io ti prendo attimo attimo attimo vita delirio mistero
Il domani è già stato il futuro già sa di queste cose di queste pietre di queste case attimo incrocio di tempi di luci respiro non più ripetibile di cieli di vene di fibre umane di erbe di frutti e umori di terra attimo vita amore amore amore follia di esistere oltre.

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Author: Geppe Inserra

3 thoughts on “Gabriele Consiglio: nella parola la follia di esistere oltre

  1. Sei qualcuno, sei grande! Alcune cose che scrivi sul tuo blog, sono quelle che avrei voluto scrivere io, come questa cosa su Consiglio di cui ho sempre sentito parlare ma che, forse, non ho incontrato. Bravo, continua. Con stima e amicizia Matteo Coco

  2. Geppe ti sei chiesto, in questo esauriente e preciso profilo dell’avv. Consiglio, come abbia potuto un professionista impegnato in politica, nell’arte forense, in famiglia, cimentarsi in una produzione letteraria di alto valore umanistico e scientifico; un interrogativo in realtà che mi sono posto anch’io nel riscontrare di mese in mese, di anno in anno, sempre nuovi testi elaborati dall’avvocato-politico-scrittore che ritrovavo puntualmente nella mia attività quotidiana di responsabile dei Fondi Speciali della Biblioteca Provinciale.
    Gabriele Consiglio con la sua cultura poliedrica si cimentava in diritto, – la sua materia principale, – in storia locale, nelle tradizioni popolari, nell’arte, nella poesia, nella musica non perdendo di vista tutti i filoni del sapere umano. Eppure era un principe del foro foggiano, un politico capace ed onesto, le sue testimonianze quale Presidente della Provincia di Foggia, quale consigliere regionale della Puglia sono molto significative ed hanno lasciato traccia indelebile nel nostro territorio, ma tutto ciò non gli impediva di essere presente in famiglia con la sua tenerezza, la sua severità, il suo modo di educare i figli.
    Davvero uomo di altri tempi come suol dirsi e di grande rarità e classe, chissà se non abbia trovato lo spazio in tutta questa sua immensa attività, anche di dedicare a se stesso un angolo della sua esistenza, quei margini generatori di grande carica.

  3. Complimenti Geppe ! Dai tuoi articoli traspare il tuo grande amore per questi piccoli centri, da molti dimenticati o addirittura ignorati. Fortunatamente c'è altrettanta gente che non ama mettersi in mostra,ma che opera per la promozione dei borghi dei Monti Dauni.Sai quanto amore nutriva il nostro amato Gabrielino per Bovino…sulla sua scia opera un nutrito gruppo di persone che fa di tutto per far conoscere il mio bel paesello ! E' sempre un piacere leggerti

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