Può sembrare bizzarro inaugurare una rassegna dedicata al cinema indipendente e di qualità, ovvero di film piccoli, con un colosso come C’era una volta in America, così come farà l’1 dicembre il Festival del Cinema Indipendente di Foggia. Ma a ben vedere non è così, perché la storia della produzione e della distribuzione del capolavoro di Sergio Leone è simile a quella di tantissime pellicole “piccole” per le quali uscire nelle sale è una scommessa, ed è costante il rischio di rimanere invisibili.
Non è un caso che la versione più o meno director’s cut del film esca a distanza di più di vent’anni dalla morte dell’autore, e per merito dei figli, che l’anno scorso hanno acquistato i diritti dell’opera. Avrebbe dovuto pensarci lo Stato, ma questo è un altro discorso.
L’incompiutezza, durata vent’anni, di questo film fondamentale nella storia della Settima Arte è una delle tante contraddizioni di quella dimensione industriale del cinema, della quale Leone – egli stesso produttore – è stato un comunque un esponente. Però con il pregio e con la specificità, rispetto agli americani di non rinunciare mai ad essere anche un artigiano del cinema nel senso medievale del termine, che non faceva distinzione tra artigiano ed artista perché l’arte era recta ratio factibilium, arte di fare bene le cose. E Sergio Leone le cose del cinema le ha fatte bene, come nessuno altro.
Quella che gli spettatori del Festival del Cinema Indipendente di Foggia potranno vedere in sala non è comunque nemmeno un director’s cut in senso stretto. Con questo termine s’intende letteralmente il montaggio del regista, ovvero quello che, dopo l’uscita in sala ed il prezzo spesso pagato alle scelte del produttore, viene realizzato dall’autore secondo il progetto che aveva in testa. È un disvelamento, insomma. Postumo, in questo caso.
In sostanza, è la versione più autentica di un’opera cinematografica, quella effettivamente voluta dall’autore, e depurata dalle incursioni dei produttori. Leone dovette pagare dazio, all’uscita del film, a causa della colossale epopea che aveva girato.
La scrittura della sceneggiatura fu incredibilmente laboriosa e portò via più di dieci anni. Le riprese si svolsero senza particolari intoppi. I problemi sorsero dopo, quando si trattò di montare il film. Leone fece stampare dieci ore di pellicola. Troppe per un film solo, e sembra che il regista abbia vagheggiato l’idea di tirar fuori due distinti film. Di fronte al diniego del produttore, Leone compresse il racconto per quanto poteva. E forse troppo, visto che alcuni passaggi narrativi risultato troppo bruschi e non riescono a dipanare bene la trama.
L’edizione ufficiale, uscita nelle sale europee, misurava tre ore e quaranta. La versione uscita nelle sale americane ad opera del produttore Arnon Milchan durava un’ora e venticinque minuti di meno, e stravolgeva completamente la tessitura narrativa del film. Le sequenze sono infatti montate in ordine cronologico, mentre è proprio l’inseguirsi ed il sovrapporsi di tanti flashback a rendere il film magico. Al botteghini le cose non andarono benissimo, diversamente da quanto era successo per le pellicole precedenti, che avevano trasformato il regista di Trastevere in un’autentica gallina dalle uova d’oro: l’ultimo film di Leone è il solo che non abbia fruttato un bel po’ di quattrini, ma soprattutto per colpa del produttore americano.
La nuova versione, aggiunge al restauro operato dalla Cineteca di Bologna, 25 minuti di nuove sequenze, rendendo finalmente giustizia a quest’opera struggente e monumentale.
C’era una volta in America non è un gangster movie, com’è stato scritto da più parti, un po’ come Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più non sono soltanto dei film western. In Leone il genere cinematografico – il western, il gangster movie perfino il peplum – è un pretesto o più precisamente un contesto, nel quale egli racconta la sue storie e dipana i suoi pensieri
C’era una volta in America è una riflessione sul tempo il cui scorrere cambia alcuni e lascia immutabili altri, come s’addice ai personaggi del mito. La chiave di lettura viene rivelata dallo stesso Leone quando fa dire al protagonista Noodles, all’amico Moe che ritrova dopo trent’anni e che gli chiede cosa avesse fatto in tutto quel tempo: “Sono andato a letto presto”, che è poi l’incipit della Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Non ho ancora visto questa nuova e definitiva versione di C’era una volta in America (sarà bello scoprirlo con il pubblico della Sala Farina) e vi confesso che non sto nella pelle per la ghiotta, irripetibile occasione che ci offre il Festival del Cinema Indipendente. È come ritrovare un vecchio amico che si era perduto di vista. Proprio come accade nel film…
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