Tra la casella di posta elettronica che uso per il lavoro, quella che utilizzo per la mia attività giornalistica e quella privata, che raccoglie anche messaggi e notifiche da Facebook, ricevo un’ottantina di mail al giorno. Nella maggior parte dei casi, il messaggio non si limita al solo testo, ma rinvia ad uno o più collegamenti: alla foto o alla nota in cui qualcuno ti ha, come s’usa dire, “taggato”, all’evento cui sei stato invitato, agli interventi alla discussione cui sei intervenuto. Anche a voler calcolare un paio di minuti per ogni mail, a volerle leggere tutte se ne andrebbero quasi tre ore. Al netto dell’altro tempo da investire nella lettura dei sempre più invasivi e pervasivi sms che, diversamente dalle mail presuppongono una lettura immediata: se l’sms non era urgente, perché te l’avrebbero mandato?
Aggiungiamoci il tempo dedicato a rispondere alle telefonate che giungono sul telefono fisso e sull’asfissiante cellulare (ho fatto i conti, un’altra cinquantina al giorno) e non è esagerato concludere che almeno quattro ore al giorno – più di un quarto della vita da svegli – vengono sacrificate sull’altare della sempre più incombente ed avvolgente comunicazione. Viviamo comunicando, forse troppo: che a furia di emettere e ricevere messaggio, si corre il rischio di non avere più niente da dire, perché manca il tempo per “produrre” senso, vale a dire per lasciar sedimentare le esperienze quotidiane che dovrebbero poi essere al centro dei messaggi.
E qui parliamo soltanto della comunicazione interpersonale, senza calcolare il tempo – anche questo necessario e ingombrante – che si deve spendere a leggere i giornali o a guardare i telegiornali, da buoni cittadini del mondo.
È tanto, troppo, anche per uno che fa di professione il comunicatore. Il mondo è effettivamente diventato un villaggio: ma del villaggio preconizzato da Mc Luhan non possiede la dimensione umana. In un piccolo borgo si comunica naturalmente, e la comunicazione svolge la sua insostituibile funzione di enzima, che aiuta a vivere meglio nel proprio posto e nel proprio tempo. Nel villaggio globale invece si ha piuttosto l’impressione di trovarsi in una piazza vociante, dove tutti parlano e gridano assieme, ed il frastuono, l’eccessiva quantità dei messaggi che si sovrappongono, impedisce di comprenderli e di rispondere.
Viviamo un’epoca in cui la dimensione mediatica è divenuta prevalente, ma la quantità della comunicazione è quasi sempre inversamente proporzionale alla sua qualità. Basta fare un giro sul web, per rendersene conto: basta interrogare un motore di ricerca di estrarre le notizie circa un qualche fatto accaduto nella propria città o nel proprio quartiere. Si resta stupiti della quantità di link restituiti: ma, a sfogliarli, son tutti uguali o quasi. Un copia incolla che produce notizie con la carta carbone. A fare le spese di cotanto assedio mediatico sono proprio gli strumenti della comunicazione più tipicamente “di villaggio”: i giornali locali, che praticamente non esistono più.
Decenni or sono, quando i quotidiani di interesse regionale non andavano oltre l’una o le due pagine dedicate al territorio, i giornali cittadini erano la vera linfa dell’informazione locale. Ed erano tra l’altro determinanti per la formazione di quella opinione pubblica che deve giudicare e dire la sua non soltanto sui fatti di cui parla la televisione, ma anche e soprattutto su quelli che accadono all’angolo di casa nostra.
Adesso non è più tempo neanche di carta stampata, solo antidoto possibile al copia incolla. Dal prossimo la pubblica amministrazione comunicherà solo digitalmente ed ai piccoli giornali locali verrà sottratta ulteriore linfa vitale: per molti la sopravvivenza sarà problematica.
Non è un caso che l’articolo che state leggendo è stato pubblicato originariamente quale editoriale al numero zero di un giornale che ho diretto, che si chiamava Pagine. Quel numero zero è rimasto unico e solo. (Se siete curiosi, potete scaricarlo qui).
Questo blog rappresenta un tentativo di esorcizzare il copia incolla, che avvilisce la comunicazione vera, un contributo perché in questo lembo d’Italia meridionale le idee riprendono a circolare.
Se credete in questa sfida, seguite Lettere Meridiane.
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