Il 31 ottobre 2012 ricorrerà il decimo anniversario del terremoto che sconvolse il Molise e il Subappennino Dauno. Nello scorso mese di febbraio, il governatore regionale pugliese, Nichi Vendola, assieme agli assessori regionali alle opere pubbliche, Amati, e al welfare, Gentile, incontrerà i comuni dauni colpiti dal sisma, per fare il punto sulla ricostruzione.
La coincidenza delle due date è sintomatica, perché basta – da sola – a denunciare il ritardo con cui si è proceduto, o più precisamente non si è proceduto, a ricostruire i paesi terremotati. Il sisma del 2002, per fortuna, ebbe un cratere relativamente piccolo. La zona maggiormente danneggiata era per lo più concentrata nella Valle del Fortore, su cui affacciano comuni del Foggia e del Molise. I soldi stanziati dal Governo nazionale non sono stati sufficienti a completare le opere di ricostruzione, che rigardavano sia gli edifici pubblici sia i molti edifici privati.
La storia raccontata dai comuni dell’Appennino Dauno danneggiati del sisma – in modo particolare Castelnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia, Celenza Valfortore e Carlantino – non è la stessa storia di altre eventi calamitosi che hanno colpito il paese, e ciò dovrebbe far riflettere.
Seppure con tutte le polemiche e tutti i ritardi che, anche in quel caso, hanno accompagnato gli interventi post sisma, i comuni irpini e lucani che vennero rasi al suolo dal terribile terremoto del 1980 hanno conosciuto una sorte assai diversa. Molti di essi hanno cambiato volto, in meglio.
E’ sempre arduo stilare classifiche, quando si tratta di morte, distruzione e sofferenza e nessuno può mettere in dubbio che il sisma dell’Irpinia fu di gran lunga più drammatico, tragico e violento di quello del Molise. Ma qualche riflessione sulla ricostruzione a due velocità occorre pur farla.
Anche i comuni subappennini della valle del Fortore hanno cambiato faccia, dopo il 31 ottobre 2002. Ma in peggio. Fin da allora, erano comuni avviati alla desertificazione. Il terremoto e la non ricostruzione post terremoto ha accelerato questo processo, che minaccia di diventare irreversibile. Chi era già andato via, emigrando altrove, ed aveva i suoi cari che dimoravano nelle malferme case della Valle del Fortore, se li è portati via. Oggi quei comuni sono sempre più vuoti, sempre più tristi, e le mura puntellate di tanti edifici la cui ricostruzione si è inceppata per mancanza di fondi non autorizza grandi speranze per il futuro.
Il problema è che non c’è stata una visione organica della ricostruzione. Probabilmente i finanziamenti sono stati distribuiti male, sicuramente sono stati elargiti a singhiozzo, appoggiandoli ora ad una legge finanziaria, e successivamente rinviandoli (e facendoli finire nel calderone) degli improbabili FAS.
La ricostruzione dell’Irpinia e della Basilicata ha sortito il risultato atteso perché ci si è resi conto, fin da subito, che non sarebbe stato sufficienti ricostruire le case, gli edifici, i servizi, le infrastrutture distrutti dal sistema per restituire un futuro a quelle comunità. Occorreva creare le premesse perché gli abitanti non fuggissero, perché tornassero ad abitare in quei luoghi, esorcizzando il rischio della desolazione. Le politiche di reindustrializzazione che hanno interessato l’Irpinia sono state, probabilmente, l’ultimo grande intervento meridionalista realizzato dallo Stato.
I ritardi e le incertezze che hanno invece caratterizzato la ricostruzione della Valla del Fortore denunciano il “gap” meridionalista, aggiungendo al danno la beffa che vede la Puglia ancora tra le aree dell’obiettivo 1 dell’Unione Europea, proprio “grazie” ai comuni delle aree collinari ed interne dell’Appennino Dauno. Forse è ormai troppo tardi. Speriamo di no. La speranza è che dall’incontro di oggi esca fuori una road map che non si limiti a chiarire come e quando la ricostruzione sarà finalmente portata a compimento, ma dica anche se e come si intende dare un futuro all’Appennino Dauno.
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