Non è una notizia di quelle da prendere sottogamba la posizione da quasi fanalino di coda rimediata dalla provincia di Foggia nella classifica del gradimento da parte degli immigrati extracomunitari. Peggio di noi, secondo la graduatoria compilata dal Cnel, fanno soltanto le province di Nuoro ed Oristano. La Capitanata è al 101° posto, le due province sarde, rispettivamente, al 102° e al 103°.
Per la verità, non c’era da attendersi un piazzamento migliore, vista la pessima fama di cui godiamo per quanto riguarda l’accoglienza agli immigrati, più spesso sfruttati, se non proprio schiavizzati, che non organicamente integrati.
La classifica aveva per oggetto gli indici di integrazione, compilati dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro sulla base della risposta fornita dagli immigrati interpellati ad una semplice domanda: “dove si vive meglio in Italia?” Al primo posto si è classificata Parma, seguita subito dopo da Reggio Emilia.
Due riflessioni. La prima è che la graduatoria della vivibilità delle Province dal punto di vista degli extracomunitari ricalca sostanzialmente il punto di vista (e gli indicatori socio-economici) che producono la classifica della qualità della vita tout court. Come a dire che, se in un certo posto vivono bene e si trovano a loro agio gli indici, altrettanto succede ai forestieri, e viceversa. E l’amara conclusione del ragionamento è che in Capitanata stanno male tutti: chi ci è nato, e chi vi è approdato in cerca di lavoro o di fortuna.
La seconda riflessione è di natura politica, e dice che la capacità di integrazione espressa da un territorio e dalla sua comunità civile prescindono dal colore politico della maggioranza che il territorio governa. A Parma governano il Pdl e la Lega Nord, eppure il livello di accoglienza espresso dal territorio è alto. In Puglia e a Foggia governa il centrosinistra, ma la provincia e la regione sono agli ultimi posti (la Puglia è penultima) per la loro capacità di integrazione, nonostante le numerose iniziative messe in campo per l’accoglienza.
Ed è proprio la politica ad essere chiamata in causa da questi dati che segnano, per la Capitanata e per la Puglia, un’amara sconfitta, l’ennesima amara sconfitta. Sarebbe interessante chiedere agli intervistati se si trovano meglio in provincia di Foggia o nei loro paesi d’origine: chissà che risponderebbero.
A rendere ancora più amaro il retrogusto lasciato dalla indagine del Cnel c’è il fatto che la politica e la società civile (non soltanto le istituzioni locali, ma anche il sindacato, il mondo dell’associazionismo) hanno tentato di voltar pagina, senza riuscirci. La manifestazione nazionale unitaria dei sindacati di qualche anno fa, gli alberghi diffusi varati dalla Regione come antidoto al caporalato ed allo schiavismo, sembrano essere passati del tutto invano. Non hanno inciso, non hanno prodotto l’atteso cambiamento, e forse non potevano farlo.
Da quest’ennesimo scacco patito dalla nostra terra dobbiamo pur ricavare una morale. E la morale è che dovremmo imparare, una volta per tutte, che il cambiamento non s’innesca con i colpi di teatro, con le conferenze stampa, con gli annunci. Non esiste alcuna bacchetta magica in grado di sprigionare cambiamento con un sortilegio. Modificare lo status quo ha bisogno di tempi lunghi e di piccoli passi. Ha bisogno di strategie corali e condivise, e soprattutto di un humus in grado di ottimizzare le piccole e grandi iniziative che vengono implementate nel territorio al fine di migliorarlo, di renderlo più vivibile.
Un parametro essenziale per discernere la vivibilità offerta da un dato territorio è dato dalla qualità dei suoi servizi. La scarsa qualità dei servizi messi in campo dalla nostra terra ci sembra l’elemento aggregante che connette la pessima performance che essa esprime sia in riferimento alla qualità della vita tout court, sia in riferimento alla capacità di accoglienza e di integrazione.
La diverse iniziative promosse all’indomani della tempesta suscitata dalla inchieste dell’Espresso sul cosiddetto “triangolo della schiavitù” non hanno sortito l’effetto sperato perché hanno dovuto fare i conti con l’humus – rarefatto ed impreparato – del territorio. Si possono anche creare alberghi diffusi, ma se poi l’offerta non viene coordinata con la disponibilità di collegamenti pubblici, se le strutture vengono mal gestite oppure i destinatari non ne conoscono l’esistenza, il servizio non decolla, la bilancia tra costi e benefici volge soltanto a vantaggio dei primi, la qualità della vita sprofonda.
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